Ci siamo presi una lunga vacanza, forse una giusta vacanza, sicuramente una meritata vacanza. Sono passate un paio di settimane dall’ultimo articolo, in cui parlavamo di Dalmat, di nostalgia. Il 2022 si è aperto con una serie di notizie da far rabbrividire: dal ritorno massiccio dell’ombra del Virus sul campionato, fino all’infortunio di Chiesa, che ci coinvolge su diversi livelli. Nelle righe che seguono, Federico ci parlerà del suo crociato, di quello di Chiesa, di Zaniolo, di Baggio e di quanto, purtroppo, nessuno tornerà “più forte di prima”, checché ne dica Bonucci. Buona lettura.
Crac
Era l'ultima azione della partitella di fine allenamento, il mister aveva già il fischietto in bocca. “Succede sempre così”, mi sono sentito dire. Da subito ho avuto il sospetto si trattasse di una formula con cui evocare la perpetuità di un presunto karma negativo, una collisione fissa tra fatalità e sfortuna utile a sollevare il morale. Non succede sempre così, è ovvio. Succede a volte, ma ci fai più caso per la prossimità di un limite che avrebbe significato passarla liscia. Ripensare alla dinamica è un accumulo di inutili rimpianti. Un amaro esercizio di memoria, questo sì condiviso da chiunque ci sia passato. Rimetti insieme tutti i frammenti di scelte prese in pochi secondi e ti torturi per non averne prese altre. Io, per esempio, perché ho deciso di inseguire il mio avversario fino alla bandierina con quella foga ingiustificata per il primo allenamento della stagione? Perché una volta raggiunto ho provato a strappargli il pallone da dietro, con quell'intervento impossibile e rischioso? Perché non me ne sono stato buono lasciando che la sua corsa finisse a fondo campo e aspettando l'imminente fischio finale del mister?
Sono evidentemente domande stupide, partorite dal rimpianto. E hanno tutte la stessa, granitica risposta: perché in quel momento mi sentivo di farlo. Ne sei consapevole ma non puoi fare a meno, tornando con la mente a quegli attimi, di tormentarti con pretese demenziali come l'idea di manipolare il tempo, di poter trasferire la lucidità del presente nel passato, come se fossi in un episodio di Dark.
È un rumore sordo e ovattato, simile a quello che arriva dal muro che ti separa dal tuo vicino e che non sai identificare. Annulla tutti gli altri. Tutto ciò che ti sta intorno svanisce. È come essere soli in una stanza insonorizzata che restituisce a te, e solo a te, l'eco di quel crac. È sconvolgente la precisione dell'onomatopea. È proprio un “crac” che ti rimbalza nelle orecchie e che in alcuni casi raggiunge quelle di chi sta molto vicino. Così come è infallibile la percezione di quel che ti è successo. Arriva immediata e brutale. Mentre sei steso per terra in posizione fetale, con una mano sul ginocchio e l'altra in alto a richiamare l'attenzione di qualcuno, la tua mente ha già proiettato quello che ti aspetta: medici, ospedali, operazione, degenza, rinunce, lunghi mesi a soffrire guardando partite di calcio. E pensandoci ora, è davvero assurdo che in un momento così intenso la razionalità si prenda tutto quello spazio, fissando tutto ciò a cui andrai incontro. Pervaso da un senso di gravità, capita – a qualcuno, altri non ce la fanno - che provi a rialzarti, aggrappandoti alle spalle di chi ti ha soccorso e all'illusione che non si tratti di quello. Fai qualche passo, provi a piegarti, a flettere e stendere la gamba, a cullarti nell'idea remota che sia stato solo un brutto spavento. In quel momento il tuo corpo diventa un nemico subdolo. Il legamento che tiene insieme il tuo ginocchio si è appena rotto e tu riesci comunque ad appoggiarlo, a percorrere qualche metro con un dolore che è più abissale che plateale. Così galleggi nell'aria rarefatta di una tenue speranza.
Sui volti dei compagni si staglia nitida un'espressione di conflitto. Da un lato il dispiacere per quello che ti è successo, acceso dall'inconfondibile urlo cacciato al momento del trauma; dall'altro quella gioia sottile e molto umana che sia successo a te e non a loro. Li osservavo assorti in quel conflitto, con gli occhi lievemente strizzati e le bocche con un taglio severo, e provavo invidia sapendo che si sarebbe risolto in poche ore. Il tempo di tornare a casa, lasciarsi alle spalle quello spazio improvvisamente cupo, e riprendere la vita di prima, compreso il rapporto col calcio. Ciò che per loro era la fine, per me era solo l'inizio.
“Tornerai più forte di prima”
Il conflitto con cui dovevo fare i conti io, invece, era quello fittizio tra la speranza che non si trattasse di quello e l'intima consapevolezza che si trattava sicuramente di quello. Per fortuna anche il mio è durato poco. Il tempo di arrivare nello studio dell'ortopedico, sottopormi al “test del cassetto”, e sentirmi dire con il classico tono indifferente e cinico dei medici – di gran lunga più apprezzabile rispetto a quello consolatorio di chi mi diceva “vedrai che non sarà nulla di grave” - che avrei dovuto fare una risonanza magnetica ma che quasi sicuramente mi ero giocato il crociato. Era la sera del 17 agosto, il languore di fine estate pervadeva lo studio di quell'ospedale milanese, e un medico giovane e abbronzato, con le Birkenstock che spuntavano dal fondo del camice, mi stava dicendo che probabilmente la mia “carriera” di giocatore dilettante era finita.
L'esito della risonanza conferma quello che in fondo non è mai stato un sospetto: “lesione completa del legamento crociato anteriore”. Per quanto crudele, quel momento è un sollievo. Finalmente lasci il limbo ed entri in una dimensione reale per la quale comunque hai già avuto tempo di prepararti mentalmente. Dopo aver conosciuto da vicino l'asprezza dell'acronimo LCA (legamento crociato anteriore) letto su un referto, iniziano ad arrivare i messaggi motivazionali tanto cari a un ambiente, come quello calcistico, colmo di tic e formule pronte all'uso. Quella per queste occasioni è “tornerai più forte di prima”. Sarebbe interessante scoprirne la genesi, capire come e perché abbia preso piede, chi per primo ha pensato fosse una buona idea essere solidale con qualcuno prendendolo per il culo, ma temo che la ricerca sia lunga e improduttiva. Perché dovrei tornare più forte di prima? In quale modo un danno di questo tipo potrà darmi dei benefici? Forse posso tornare come ero prima, ma più forte?, no (un consiglio, dunque: se proprio non vi viene in mente altro, scrivete “tornerai quello di prima”). Nessuno è mai tornato più forte di prima da questo infortunio, e anche per chi è tornato ai suoi livelli non c'è la certezza che senza quell'incidente non sarebbe potuto essere un giocatore migliore.
Nonostante la rottura del crociato ad appena 18 anni, Roberto Baggio ha vinto un Pallone d'Oro ed è tuttora considerato da molti come il più grande talento mai prodotto dal nostro calcio. Ma chi ci dice che senza quell'infortunio non avrebbe potuto fare di più? Beh, in realtà lui stesso, implicitamente: «Ho sempre giocato con una gamba e mezzo. Ho una gamba più piccola dell’altra, un ginocchio a orologeria. Con il male che ho io al ginocchio, avrebbero già smesso tutti da anni. Ho male tutte le volte che gioco». Dopo due anni difficili, in cui ha faticato a ritrovare confidenza col suo corpo e il suo talento, Del Piero ha riannodato il filo interrotto con la sua carriera e ha fatto grandi cose. Ma siamo sicuri che il Del Piero visto dopo l'infortunio al crociato del 1998 sia l'evoluzione di quello visto in precedenza, quando rivaleggiava con Ronaldo e Zidane per lo status di migliore al mondo, e non un suo seppur splendido surrogato?
Certo erano altri tempi. Grazie al progresso della scienza oggi il percorso clinico è molto più sicuro e sofisticato. Ma per un Rudiger che raggiunge altissimi livelli nonostante la rottura del crociato, c'è un Ghoulam triste ed emarginato che ha smarrito i superpoteri con cui si era attestato come uno dei migliori esterni bassi in circolazione. Quando Marko Pjaca ha subìto la prima lesione nel 2017, il medico della nazionale croata Boris Nemec diceva di temere per il suo recupero, perché nel 45% dei casi da questo infortunio non si torna come prima. Oggi, quattro anni dopo, i suoi timori sembrano purtroppo giustificati.
Il dibattito calcistico, come spesso accade, tende a semplificare, ricorrendo all'approccio manicheo per cui il giocatore che subisce una lesione al crociato o “è finito” o “tornerà più forte di prima”. Nel solco tra i due estremi sedimentano sfumature che dipendono da una vasta gamma di fattori: anatomici, biomeccanici, mentali. La verità, o ciò che ci si avvicina di più, è che nessuno può prevedere come sarà il ritorno in campo. L'unica cosa certa è che la lesione del crociato rappresenta un bivio nella carriera di un calciatore. Un vero e proprio salto nel vuoto, da cui può riemergere il te di prima o un Godot da aspettare invano.
Se è pur vero che quella vecchia storia dell'amico che ha dovuto salutare il suo sogno di gloria per un infortunio al crociato in età prematura è spesso una favoletta egocentrica, è altrettanto vero che in giro per le categorie minori o lontano dai campi di calcio c'è un esercito di ex promesse che non ha più recuperato il suo dono.
Lo spettro del crociato
Da quando mi sono fatto male ho iniziato a vedere le partite di calcio con occhi diversi. Cambi di direzione repentini, atterraggi, scontri di gioco non sono più soltanto questo. Sono continue prove di quanto sia facile rompersi il crociato giocando a calcio. Dove prima vedevo elasticità e atletismo, oggi vedo pericoli. Nei replay in slomo di alcune situazioni di gioco, la proiezione di quello che sarebbe potuto succedere a quel giocatore scatena una fitta che si insinua come un brivido nel mio il ginocchio ammaccato. È come se lo spettro del crociato aleggiasse su tutti i campi, un mostro dormiente pronto a irrompere dal nulla. Una minaccia che nessuno avverte e a cui nessuno pensa, ma che è lì, più vicina di quanto si possa credere. Capisco se a questo punto crediate opportuno toccarvi, e mi sento di rassicurarvi: forse questa visione è solo il risultato della mia condizione, della nuova angolazione da cui guardo il calcio. D'altronde, secondo il professor Pierpaolo Mariani della clinica Villa Stuart di Roma, circa il 90% dei calciatori professionisti non subisce una lesione al legamento crociato anteriore nel corso della propria carriera. Dalla mia prospettiva sembra una statistica sballata e inverosimile, oppure, se veritiera, frutto di una somma fortunosa di contingenze.
Quando Ben Chilwell ha fatto quell'intervento deciso in mezzo al campo, durante Chelsea-Juve, sapevo già che si era rotto il crociato. Forse lo sapevamo solo io, lui e altri reduci che come me sono stati rapiti dal demone del crociato e hanno coltivato proprietà da aruspici su questo tipo di infortunio. È successo anche con Federico Chiesa, domenica. Dopo lo scontro con Smalling ero sicuro si trattasse di qualcosa di grave, anche se da chi gli stava vicino non si percepiva eccessiva preoccupazione. Ho detto agli amici con cui stavo vedendo la partita che nella migliore delle ipotesi si era giocato il collaterale, ma dentro di me una voce suggeriva che si trattava di quello.
Quando l'ho visto “saltare” dopo il contro-movimento che gli ha definitivamente rivelato come stavano le cose, non ho avuto più dubbi. Empatizzare con lui è stato naturale, così come maturare pensieri negativi per il suo futuro. Se questo infortunio è già di per sé una sciagura, per un giocatore con le sue caratteristiche è ancora peggio. Il gioco di Chiesa è elettrico, ipercinetico, fatto di continui cambi di direzione e sempre spinto al limite dell'intensità. Le sollecitazioni a cui sottopone il suo corpo sono continue ed estreme. Riuscire a recuperare fisicamente e mentalmente quella frequenza non è scontato, anche se i riferimenti positivi non mancano, come Leroy Sané. Mentre scrivo, è probabile che anche Chiesa, come accaduto a me, stia ripensando all'azione dell'infortunio, sbattendo la testa sulla scelta di provare a calciare di prima quel pallone appoggiato da Dybala, nonostante la pressione di Smalling.
Ovviamente il vento della retorica ha iniziato subito a soffiare, dando il via al giro dei “tornerai più forte di prima”. Leonardo Bonucci è andato oltre. Pescando a piene mani da un altro grande classico del glossario motivazionale dei calciatori, il discorso di Al Pacino in Ogni maledetta domenica, ha scritto: “Ora tutto ti diranno che tornerai più forte di prima. Io ti dico solo che ora dipende da te, un centimetro alla volta per diventare un uomo e un giocatore migliore. Ti aspetto”.
Chiesa si è fatto male nella stessa zolla in cui Nicolò Zaniolo si è rotto il crociato la prima volta, in un altro Roma-Juventus. Due dei più luminosi talenti del calcio italiano sono caduti vittime di una maledizione che lo spettro del crociato sembra aver lanciato su Roma e sullo stadio Olimpico, dove anche Francesco Totti, nel 2008, ha lasciato un ginocchio. Quello di Zaniolo è il 17esimo crociato che salta in casa giallorossa negli ultimi sette anni. Qualche anno fa, una serie ravvicinata di lesioni in Serie A aveva portato stampa e opinione pubblica a interrogarsi sul motivo di quella inusuale e preoccupante ripetitività, che sembrava fare a pugni con la statistica del prof. Mariani citata in precedenza. Anche perché diversi dei giocatori passati da quest'infortunio hanno subìto una ricaduta (Strootman, Milik, Florenzi, Zaniolo, per non parlare del povero Giuseppe Rossi).
Se in passato subire questa lesione portava con sé il forte rischio di compromettere la propria carriera, oggi non è più così, ma i casi sembrano drasticamente aumentati. Secondo Pietro Monachino, ortopedico e medico dello sport, «l'aumento dell'incidenza della rottura del legamento crociato è legata a un calcio estremamente dinamico, in cui si gioca con maggiore intensità». In questo senso, non c’è da stare tranquilli, visto che il calcio sembra sempre più proiettato verso una dimensione muscolare. Anche il numero elevato di partite, e lo stress fisico e mentale che ne consegue è un elemento da considerare, così come un tratto all'apparenza più accessorio come il materiale e la forma dei tacchetti, studiati per garantire il massimo della velocità possibile. Secondo il professor Mariani, invece, è una questione di predisposizione biomeccanica avversa. In sostanza, c’è chi passa una carriera con l’ombra del crociato sempre alle sue spalle e chi no.
Un passo alla volta verso l’ignoto
Mi rendo conto che i toni con cui ho descritto cosa succede quando ti rompi il crociato possano sembrare eccessivamente gravi o enfatici. Non vorrei sembrare tragico. E vi prego, non fatemi dire che nella vita c’è molto di peggio. Ma è evidente che per chiunque giochi a calcio a livello agonistico è l’incidente più grave che possa capitare (la rottura del tendine d'Achille, considerato l'altro grande nemico da evitare, è l'unico che prevede un recupero più lungo, ma una volta ristabilito ci sono ottime probabilità di tornare il giocatore di prima). Non parlo di me, che ho 33 anni, un lavoro, e gioco nei dilettanti; parlo di chi ha investito tutte le sue risorse per essere un calciatore, arrivando a garantirsi una quindicina d’anni di assoluta eccellenza e forti emozioni. Un arco di tempo breve e densissimo, per cui 6-8 mesi sono un’assenza lunga, da passare nel dolore di un recupero faticoso e nella solitudine di pensieri scomodi.
Mentre dedichi ore e ore in palestra alle prese con esercizi noiosi e sfiancanti, mentre ti guardi allo specchio e vedi quella gamba subalterna, in lontananza un coro di voci sta già parlando di te al passato. Le puoi sentire. Il fantasma del what if ti accompagna lungo il percorso. Oscilli da un estremo all’altro, tra momenti di fiducia e momenti di sconforto. Diviso tra l’orgoglio di voler tornare quello di prima e il timore che non sarà possibile, ti avvicini un passo alla volta verso l’ignoto.
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