David Beckham è sempre stato una questione di stile
Breve trattato sull'estetica calcistica con cui ha segnato un'epoca
Se pensate di leggere una recensione di “Beckham”, la docuserie in onda su Netflix, siete nel posto sbagliato. Questo è un pezzo per i feticisti dell’estetica calcistica. Un pezzo che cova dentro di me da quando, adolescente, legavo la linguetta della mie Predator sotto la suola, come faceva David Beckham.
Il senso di quello che David Beckham è stato per il calcio e non solo arriva dopo pochi minuti dall'inizio di Beckham, la docuserie in quattro episodi che lo racconta. Le sterminate immagini di repertorio cominciano a ripercorrere la traiettoria della sua carriera e in un attimo ci ritroviamo sul campo del Wimbledon, in un pomeriggio d'agosto del 1996 in cui è ospite il Manchester United. Il sole di tarda estate accende il campo di quel verde tipicamente britannico. Il sapore di calcio inglese anni Novanta arriva dritto in gola. L'intimità dello stadio, il gioco sporco e confuso, il pallone Mitre. Beckham è all'altezza della linea di centrocampo, immediatamente riconoscibile con le sue maniche lunghe divenute un culto che ancora non ha smesso di collezionare adepti. Sulle spalle porta la 10, assegnata per illuminare il germoglio di un talento allevato in casa United dall'età di 16 anni.
Beckham riceve il pallone, alza la testa, e nel languore di un calcio ancora rallentato ha il tempo di pensare a cosa fare di quel pallone. Non ci mette molto a decidere di calciare, anche se la porta è lontana almeno cinquanta metri. Un'occhiata alla porta, una al pallone, e poi mette in moto la sua meccanica speciale: quell'insieme di movimenti coordinati, insieme sinuosi e plateali, che hanno definito il suo stile di calcio unico. Un calco inimitabile. Il braccio sinistro che disegna un ampio arco, l'inclinazione obliqua del corpo, e quello slancio eccessivo della gamba che una volta impattato il pallone subisce una frenata dolce come la punta di una frusta che si attorciglia dopo un colpo. È un compendio motorio così meravigliosamente armonico che basta una piccola dose di sensibilità estetica per vivere un momento di puro godimento.
Beckham sta per innescare la sua fionda da centrocampo. Non appena il pallone parte dal suo piede si capisce già che il colpo ha la giusta misura. Viaggia luminoso come un corpo celeste e si infila sotto la traversa senza rimbalzo. Nel tentativo di non subire la più feroce delle umiliazioni, il portiere prova un recupero disperato ma finisce impigliato nella rete come un insetto inconsciamente suicida. Beckham esulta con la moderazione di chi non si sorprende delle proprie meraviglie, mentre i compagni gli saltano addosso scuotendo il suo caschetto efebico e celebrando il gioiello di cui sono appena stati testimoni. È un momento rivelatore. Non si era mai visto un gol così. Quel giorno Beckham ha mostrato al mondo ciò che gli avrebbe offerto nei prossimi anni, quello che lo avrebbe reso un giocatore speciale, o meglio, un fenomenale specialista: la qualità e lo stile del suo calcio.
Nessuno aveva mai calciato con quel preciso stile. Non esistono riferimenti o precursori. E di certo nessuno, nemmeno il più esteta degli allenatori, ti insegna a calciare in quel modo. È un tipo di calcio forgiato da David Beckham, prodotto dalla sua naturale tensione verso la grazia espressiva. Già da bambino, come testimoniato dallo splendido materiale d'archivio disseminato in più di quattro ore di documentario, Beckham aveva piantato il seme di quello stile. Piccolo e ossuto, ogni volta che si presentava sul punto di battuta di un calcio da fermo faceva partire quel balletto personale: il braccio, il corpo, lo slancio. Affreschi fugaci a cui forse il padre Ted non faceva troppo caso, focalizzato com'era sull'obiettivo di trasformare la sua ossessione per il Manchester United in una storia familiare, portando il figlio a vestire quella maglia che per lui era tutto. Anche se inaccessibile alla massa, intimamente Beckham stava già creando un nuovo immaginario.
Con quel calcio, Beckham ci ha costruito una carriera. Consapevole di avere una qualità balistica assolutamente fuori scala, cercava di sfruttarla il più possibile. Ogni volta che riceveva il pallone, le prime idee erano di ampio raggio: il lancio in profondità, il cambio di gioco, il tiro e soprattutto il cross, a seconda della posizione di campo in cui si trovava. Per un calcio che ancora non aveva adottato trasversalmente i dogmi del gioco di posizione, la cultura del possesso e del gioco corto, le sue doti da battitore erano un'arma micidiale. Beckham non era veloce, non aveva dribbling, non era efficace nel muoversi senza palla o nell'attacco alla porta. A parte una dose notevole di conoscenza del gioco, una percentuale altissima della sua qualità complessiva era data dal suo calcio, reso ancora più luminoso dal suo stile.
La massima espressione della sua personalissima estetica era il calcio di punizione diretto. La rincorsa quasi parallela al pallone, il braccio sinistro aperto come un compasso e la gamba destra che per imprimere uno slice estremo finisce per accavallarsi morbidamente sull'altra con la stessa sensualità di Sharon Stone in quella famosissima scena. Uno stile chiaramente affettato e ampolloso, ma capace nel suo manierismo di riflettere una naturalezza divina. Come una sintesi tra Faulkner e Carver, tra Sorrentino e Haneke. Il tutto ulteriormente impreziosito dal modo in cui indossava la sua uniforme da artista, che si conciliava a meraviglia con il suo modo di calciare. Beckham aveva creato non solo uno stile di calcio, ma anche il vestito perfetto per esaltarlo. La maglia over con le maniche lunghe, i pantaloncini larghi, e soprattutto le scarpe. Non si accontentava di abbassare la linguetta delle sue Adidas Predator come facevano tutti, ma estremizzava quella possibilità portando la linguetta fin quasi alla punta delle scarpe, fissandola con un elastico che passava sotto la suola. Descriveva quel vezzo come una questione di comodità, spiegando che in quel modo otteneva una superficie più liscia sul collo del piede. Ma era chiaro che si trattava soprattutto di una questione estetica. Misteriosamente, quel modo di tenere le scarpe rendeva il suo calcio ancora più appagante da vedere. Era il suo ideale completamento estetico, anche questo frutto di una sua invenzione.
Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, eserciti di bambini e ragazzi sparsi per il mondo si improvvisavano artigiani per cercare di modellare la linguetta e rendere le loro Predator come quelle di David Beckham. Un modello di scarpe che nonostante fosse indossato da gente come Zidane, Del Piero e Raul, è stato soprattutto il suo, tanto che Adidas finirà per realizzare un modello speciale di Predator in cui la silhouette di Beckham nell'atto di calciare campeggiava proprio su quella linguetta allungata.
Nessuno ha mai segnato in maniera così profonda l'immaginario stilistico legato al calcio. Nessuno, né prima né dopo, è mai riuscito a imprimere il suo marchio su un paio di scarpe da calcio con lo stesso impatto di David Beckham, nemmeno le più illustri leggende di questo sport. Le Adidas di Messi, le Vapor di Cristiano Ronaldo, le Tiempo di Ronaldinho sono solo modelli speciali ideati dai brand per valorizzare i loro migliori atleti e moltiplicare le vendite. Le Puma King di Maradona sono state iconiche soprattutto per quello che Diego faceva sul campo con il suo piedino magico e infantile. Solo le Mercurial R9 di Ronaldo il Fenomeno si sono avvicinate alle Predator di Beckham in termini di impatto e creazione di un immaginario. Ideate nello stesso periodo storico, erano le perfette antagoniste perché generavano un contrasto di stili: la velocità ferina di Ronaldo contro la balistica squisita di Beckham. Anche se in misura decisamente minore, si può dire che Beckham ha fatto per l'estetica calcistica quello che Michael Jordan ha fatto per il basket.
È arcinoto che la sua devozione per lo stile non riguardasse solo il calcio. Beckham era ossessionato dall'estetica e la coltivava di continuo dentro e fuori dal campo, dove la relazione con la Victoria aveva contribuito ad amplificare la sensibilità per la sua immagine. Per anni, e la cosa va avanti ancora oggi, “David Beckham style” sono state le parole chiave inserite nella stringa di ricerca Google da chiunque avesse ambizioni estetiche. I suoi continui cambi di acconciatura scatenavano immediatamente plotoni di emuli e hanno rappresentato il simbolo della sua celebrità, l'epitome delle sua carriera di sportivo e di icona popolare. Ogni fase della sua parabola è stata segnata da una precisa acconciatura. Il caschetto per la sua esplosione, il mullet glamour e la cresta nella sua affermazione, la testa rasata nel periodo più intenso e lo chignon dorato nella sua esperienza al Real Madrid, che associato all'eleganza candida della maglia blancos ne ha riflesso la sua immagine più celestiale e al tempo stesso fuorviante.
Sì, perché questa febbre per lo stile non era sinonimo di superficialità. Beckham non è mai stato una star frivola, un vanesio inconsistente. Riempiva quella confezione luccicante con il carattere e l'autenticità di chi è cresciuto in un contesto umile. Nonostante i bling bling e i rotocalchi e l’interesse prematuro per il personal branding, non ha mai dato l’impressione di essere un giocatore salottiero. La sua anima da working class non è mai stata davvero sacrificata sull’altare dell’apparenza. In campo pennellava ma amava anche la lotta, che ovviamente conduceva senza abbandonare la sua raffinatezza, con scivolate e contrasti duri ma pieni di grazia. Quando per mesi è stato bersagliato da tutto il popolo inglese, dopo la stupida espulsione contro l'Argentina che è costata il Mondiale del 98' all'Inghilterra, ha reagito con il carisma di chi ha la polpa finendo per vincere uno storico treble da protagonista. Dopo il suo primo passaggio ai Los Angeles Galaxy, che aveva il sapore di un comodo congedo, è voluto tornare in Europa per misurarsi ancora con il livello più alto e guadagnarsi un'ultima convocazione al Mondiale. E quando è rientrato negli Stati Uniti, bollato dal movimento come fenomeno che li aveva snobbati, si è calato umilmente in quel contesto e ha messo anima e cuore per guadagnarsi il rispetto dei suoi compagni. Non è stato capitano della nazionale inglese perché era figo. È stato capitano della nazionale inglese perché aveva sostanza e spessore umano.
La sua attrazione verso il bello aveva più a che fare con un'idea di cura, di attenzione morbosa per le cose fatte bene. Alcune scene del documentario girate nel suo lussuosissimo cottage raccontano bene questa ossessione. Beckham agghindato da apicoltore che con estrema maniacalità e armonia gestuale offre al suo intervistatore del miele appena prodotto; Beckham che mostra la chirurgica disposizione dei suoi vestiti nell'armadio e mentre racconta del suo amore per l'ordine sposta in maniera impercettibile una gruccia; Beckham che pulisce ogni centimetro della sua cucina con una solerzia quasi patologica.
Oltre che bello da vedere Beckham è stato un giocatore concreto. Ha puntellato la sua carriera di grandi momenti, quasi tutti scolpiti dal suo calcio. La storica punizione nei minuti di recupero contro la Grecia, valsa la qualificazione ai Mondiali 2002 e cristallizzata nella memoria collettiva non solo per l'importanza ma anche per la sua perfezione estetica, con quella maglia bianca che era la sua preferita. I due calci d'angolo partiti dal suo piede per la clamorosa rimonta sul Bayern Monaco negli ultimi due minuti della finale Champions del 1999. I 65 gol su punizione segnati in carriera e la quantità infinita di assist, soprattutto da cross. Beckham è stato un ottimo giocatore, non un grande campione. Uno straordinario specialista, non un fuoriclasse. È il suo stile ad averlo elevato e reso davvero speciale. Se avesse avuto la stessa abilità nei piazzati, la stessa efficacia balistica, ma uno stile di calcio incolore, avremmo la stessa idea di David Beckham calciatore? Se non avesse intinto il suo pennello in quella vernice così personale, avremmo esaltato in questo modo la sua arte?
A definirlo è stato sempre lo stile, e in giro non si trovano suoi successori. Non c'è traccia di qualcuno che come lui sia capace di segnare un'epoca con la forza della sua estetica.