Siamo stati a Istanbul per vivere da vicino una finale inattesa. Abbiamo trovato una città tentacolare e un popolo che sembrava essersi messo in marcia dopo aver ricevuto una chiamata dall’alto. Questo è un racconto di fede e di dolore. Buona lettura.
Un ottimismo dilagante serpeggia nel caos impossibile di Istanbul, si innerva nei suoi dedali chiassosi a tutte le ore del giorno e della notte. Trentamila interisti si sono riversati in questo inferno metropolitano con una bizzarra convinzione: vincere la coppa. Razionalmente ci sono pochi motivi per crederci davvero. Ok, la squadra arriva al meglio, le caratteristiche del City sembrano incastrasi bene con quelle dell'Inter e la pressione è tutta dalla parte degli inglesi. Ma davanti c'è la migliore squadra del mondo, reduce da una stagione di dominio tirannico. Le quote dei bookmakers sono ridicole per una finale di Champions League. Se punti cento euro sulla vittoria del City ne vinci venti, il prezzo con cui a Milano, se ti va bene, puoi farti una pizza e una birra. Eppure chiedi a tutti gli interisti che incontri e loro ti sbattono in faccia questa sicumera con sorriso compiaciuto. Eludono il raziocinio in maniera naturale, come se si fossero messi in marcia dopo aver ricevuto una chiamata dall'alto.
Davide, un uomo di mezz'età piuttosto ordinario, con l'aspetto di chi cerca equilibrio in tutte le sfumature dell'esistenza, non ha dubbi: «State tranquilli, vinciamo al 100%», dice lapidario ai due interisti che come lui hanno avuto la fortuna di trovare posto a sedere sulla navetta che dal centro della città porta allo stadio, un'ora e quaranta minuti di strada senza l'ossigeno dell'aria condizionata. Non ci sono tesi lucide a supporto di questa certezza, solo una sensazione che erutta da abissi sconosciuti e alla quale è impossibile opporsi. Non si parla di strategie, se sia meglio partire con Dzeko o con Lukaku, se Mkhitaryan sia effettivamente in grado di giocare. Tutto è assorbito dalla mistica. Marco, un ragazzo decisamente più esuberante, intinge le stesse convinzioni in un magma onirico. Sul costato ha tatuato il 35 e il 70, minuti dei due gol di Milito nella finale di Madrid. La notte prima aveva sognato una sua doppietta. Ora, con il piglio del veggente, dice di aver sognato l'Inter in festa. I compagni di fede che lo circondano affogano la loro sbornia in questa premonizione. Pieni di birra lo toccano come un amuleto, lo abbracciano, assorbono le sue energie e intonano l'ennesimo coro che echeggia nella notte turca da questo piccolo bar del centro.
Vivere Istanbul in questi giorni è un'esperienza metafisica e psichedelica. Gli interisti si muovono in questa città tentacolare alimentando il loro presagio con tutti i tumulti che li circondano. Clacson impazziti, urla, melodie arabe che grattano stereo di auto logore, scoppiettio di carne sulla brace, maleodori che provengono da angoli di strada in cui non si trovano cestini. Ogni elemento è benzina per l'eccitazione. Ovunque si trovano segni che questa vittoria è scritta nelle stelle. Dalle insegne al neon di locali grotteschi ai sodalizi del popolo turco che vede in Calhanoglu l'uomo del destino. Una simbologia variegata e ineludibile. Qui sembra che nessuno dorma. Quindici milioni di persone sempre sveglie, che sovvertono il quotidiano mescolando il giorno e la notte. Il sole e la luna che si scambiano senza conseguenze sulle persone. Di notte a Istanbul puoi mangiare con calma, fare shopping, tagliarti i capelli. E tutti i commercianti con cui ti relazioni non hanno volti stanchi, non sembrano segnati da questo ciclo continuo. I più provati sorseggiano tè e fumano sigarette con la cenere appesa. Il vagabondare degli interisti sbatte come un flipper in questo brulichio, fertilizzante del destino a cui sentono di andare incontro. Rientrato in hotel, mi stendo nel letto. Sono le quattro e mezza di notte. Non appena chiudo gli occhi, la voce del muezzin al microfono si diffonde nella camera come un canto profetico.
A Istanbul la spiritualità fa da contraltare al suo fragore. Gli interisti in visita alla Moschea Blu non hanno l'aria di semplici turisti. Stretti nei loro drappi nerazzurri, si tolgono le scarpe e contemplano intensamente la magnificenza che li circonda. Vederli fa uno strano effetto. Mischiati alla gente locale, lì per altri motivi, danno vita a una sorta di preghiera collettiva. Dimensioni sacre diverse, ma entrambe figlie di una fede incrollabile.
Nei tifosi del City giunti fin qui non c'è nulla di altrettanto intenso. Sono per lo più anziani o giovani stranieri senza eredità di tifo. Anche loro cantano e ovviamente ci danno dentro con l'alcol, ma sembrano qui per una vacanza di piacere. Non riflettono in alcun modo la tradizione dei tifosi britannici. Sono piuttosto calmi e accoglienti, quasi languidi nelle loro divise celesti che ne acuiscono la tenerezza. Quello che succederà qualche ora dopo, allo stadio Ataturk e nelle ore successive, è la dimostrazione plastica della loro anomalia. La certificazione di un rapporto morbido con la loro squadra. A inizio partita intonano con fierezza Wonderwall, quello che hanno adottato come canto d'amore solo perché due degli autori sono illustri tifosi del City. Poi basta per 90 minuti. Niente storia, niente pathos, niente viscere. Vinceranno per la prima volta una Champions League e festeggeranno con l'emozione che restituisce una Carabao Cup. Alcuni di quelli che incontriamo di notte dopo la partita mangiano pigramente kebab con un mano, mentre con l'altra scrollano il telefono. Osservarli stimola una riflessione avvilente sulle distorsioni e gli sprechi del calcio moderno. Due miliardi spesi negli ultimi dieci anni, un lungo ciclo con il miglior allenatore della storia del calcio, la continua ricerca e sperimentazione sul campo e poi l'impatto sui tifosi, l'unica cosa che davvero conta, è questo.
Questo discrimine passionale è ulteriore combustibile per il presentimento degli interisti, forti di un sentimento molto più vigoroso e radicato. Mancano poche ore all'inizio della finale, e l'eccitazione sale. Nemmeno il disagio degli spostamenti riesce ad affievolirla. È difficile trovare una città meno adatta di Istanbul per ospitare un evento di questo tipo. I tempi di percorrenza per fare tre chilometri si aggirano intorno ai 40 minuti. La maggioranza dei tassisti non parla inglese e decide variazioni di prezzo durante e dopo la corsa. Se non ti sei premurato di stipulare un contratto ad hoc per la rete internet il tuo telefono è morto. In città ci sono quattro stadi, ma quello selezionato per la finale è il più vecchio e complicato da raggiungere. L'autista della navetta che ci sta portando lì ha addirittura sbagliato strada. E qui ogni errore di questo tipo significa almeno venti minuti di viaggio in più. Raggiunta la fan zone, ritrovo dell'esercito di fedeli che si muovevano come uno sciame per la città, la disorganizzazione tocca le sue punte più alte. Due file di stand ai lati dell'area sono allestiti per cibo e beveraggio. Di questi venti, sedici sono per le birre e il resto per hamburger e hot dog. Mangiare è praticamente impossibile, a meno che non si decida di affrontare una calca selvaggia per almeno un'ora. I più temerari, o semplicemente persone che non vogliono rinunciare a uno dei fabbisogni vitali, si fanno trascinare dai cori senza sosta che riempiono l'aria della fan zone, cantando a squarciagola con un gomito appoggiato sulla spalla di uno sconosciuto e la mano ad allungare lo scontrino verso un bancone irraggiungibile.
Una volta dentro lo stadio, la vertigine è tangibile. Tutto il fermento accumulato nelle ore precedenti è confluito dentro questa struttura démodé ma a suo modo affascinante. Sono nel settore dei tifosi dell'Inter. Attorno a me ci sono persone esauste, stremate da un assurdo dispendio di energie fisiche ed emotive a cui però intendono resistere attingendo a un serbatoio disponibile sono per un'occasione come questa. Ho visto persone addormentarsi in piedi e svegliarsi di soprassalto per seguire il coro sui chilometri divenuto manifesto di questa stagione vibrante e inattesa, un coro che tutti, ora, anche i tifosi più stanziali, hanno motivo di cantare. Sono quasi tutti afoni eppure il rumore è continuo e assordante. Figli trentenni si assicurano che i padri anziani con cui sono venuti fin qui abbiano almeno un minimo di comfort, un momento di riposo dopo questa maratona d'amore. L'unione è densa, l'ottimismo ben saldo.
La partita si sviluppa in una dimensione sospesa. I minuti passano velocemente e non si percepisce grande tensione. Il contrario di quello che dovrebbe accadere a chi affronta una partita di resistenza. Ma questa lo è solo in parte. I pericoli sono pochi è l'Inter sembra in grado di controllare la sofferenza lasciandosi spiragli per fare male. Tutta la fiducia irrazionale che aleggiava alla vigilia sembra lentamente prendere forma e sostanza. La speranza cresce e il coro “Forza Inter facci un gol” diventa un crescendo wagneriano che si trascina per minuti e minuti. Poi arriva il gol di Rodri. Un fulmine che attraversa il corpo immaginario di un intero popolo. Il silenzio che lo accompagna dura poco. È rotto presto dall'orgoglio di chi non vuole rinunciare a quel sogno, all'affetto e al sostegno per una squadra che se li merita fino alla fine. Si ricomincia subito a cantare, ma ora quel suono appare come un lamento disperato. Improvvisamente tutte le sensazioni da cui gli interisti si erano fatti trascinare lasciano posto alla crudele consapevolezza che sarebbe finita male. Nonostante l'Inter fosse ancora in partita, nonostante il City apparisse inusualmente spaventato e vulnerabile e non riuscisse a nascondere il pallone come è solito fare una volta passato in vantaggio, il finale sembrava già scritto. Le occasioni di Dimarco e Lukaku sono solo istantanee dolorose di questa intima rassegnazione.
La mistica si è scontrata con la realtà. Il video delle uova, i riferimenti, le coincidenze con l'ultima Champions vinta, l'istinto cieco e tutto quel campionario illogico che aveva modellato questa tensione positiva si è vaporizzato in un istante. Sembrano pretesti stupidi ma nel calcio, nell'anima del tifo, tutti questi elementi sfuggenti assumono spesso un valore profondo. Nessuno si aspettava una partita in cui l'Inter se la sarebbe giocata alla pari. Gli interisti credevano di vincere con l'ausilio del fato, e invece è successo l'opposto. L'Inter si è dimostrata grande ma la coppa l'ha alzata il City. Intorno a me c'è la desolazione. Gli ultimi cori dedicati alla squadra venuta a salutare sono pieni di orgoglio e amarezza. Eppure non vedo gente piangere. Come se quello non fosse un sogno sfumato ma l'asprezza della realtà con cui tutti sono abituati a fare i conti. Le lacrime forse arriveranno dopo, al rientro da questo viaggio fantasmagorico.
La navetta che ci riporterà in centro è ferma nel parcheggio da più di un'ora. A bordo sono tutti sfiniti, assorti nella fatica e nel dolore. Il disastro organizzativo è solo un contorno. La babele attorno resta sullo sfondo, come un paesaggio incolore che sfila dal finestrino. Nessuno fa una piega quando si vede un taxi percorrere l'autostrada in contromano per evitare un traffico che non conosce mai sosta. Ora gli interisti vogliono solo tornare a casa.