L'abisso di Loris Karius
La carriera del portiere tedesco si è fermata a quella notte da incubo di quattro anni fa
Dal “Man On Fire”, a un uomo che ha vissuto - e probabilmente vive - il suo personalissimo inferno. La nostra vita, è banale dirlo, è costellata di errori. Ce ne sono alcuni, però, che più di altri, tormentano le nostre vite. E se per voi che leggete sono quella volta in cui non siete stati reattivi con la vostra cotta del liceo, facendovi scappare un’occasione per sempre, o di quando avete sbagliato il taglio di capelli per quell’occasione importante, venendo per sempre immortalati come un ananas al fianco dell’unica medaglia che potete vantarvi di aver vinto nella vostra vita. Bene, c’è chi quell’errore lo rivive con in sottofondo la musichetta della Champions. Stiamo ovviamente parlando di Loris Karius e della serata che gli ha cambiato la vita. Buona lettura.
C'è lo zampino dei portieri nelle fenomenali triplette con cui Karim Benzema sta imprimendo il suo marchio in questa edizione della Champions League, e forse nella storia del calcio. Come ipnotizzati da un raro rapace dal piumaggio bianco, prima Gigio Donnarumma e poi Edouard Mendy hanno perso il controllo dei propri gesti e hanno offerto due regali inaspettati al fuoriclasse francese, che ha preso e ringraziato, volando via verso le montagne. Errori grossolani e inusuali per due dei migliori portieri in circolazione: il primo nominato miglior giocatore dello scorso Europeo, l'altro diventato campione d'Europa, d'Africa e del mondo in un solo anno con le maglie di Chelsea e Senegal. Entrambi però, possono consolarsi. Non gli è andata così male. L'incantesimo di Benzema ha fatto altre vittime in passato, e la prima, quella che forse ha dato il via alla maledizione, a distanza di quattro anni non ha ancora ritrovato se stessa. Se Donnarumma e Mendy archivieranno queste cadute come normali inciampi di un lungo e virtuoso percorso, Loris Karius non è più riuscito a rialzarsi.
Quando arriva al Liverpool, nell'estate del 2016, Karius ha 22 anni e un carico di aspettative non indifferente. Si parla di lui come di un altro prodotto della nuova generazione d'oro di portieri tedeschi. Con la maglia del Mainz è stato l'esordiente più giovane nella storia della Bundesliga e ha collezionato 32 clean sheet in 95 partite. Fa parte della Nazionale Under 21 della Germania. È esplosivo, determinato, e sicuro di sé ai limiti della spocchia, come deve essere un portiere. Ma il Liverpool è un'altra cosa, e Karius lo realizza presto: «Finché non sei qui non ti rendi conto di quanto sia grande questo club, seguito da milioni di persone in tutto il mondo e in cui tutti vogliono comprensibilmente avere un'opinione su di te». Dopo un inizio opaco, Jürgen Klopp decide di affidare ai suoi due portieri una specifica area di competenza: in campionato gioca Mignolet, in Champions League gioca Karius. Una scelta apparentemente democratica dettata dal leggero discrimine dei suoi portieri, ma che in fondo solleva il dubbio che Klopp non si fidi del tutto di entrambi. Poi, nel gennaio 2018, rompe l'indugio e consegna in toto le chiavi della porta a Karius, nonostante le incertezze che il portiere tedesco dissemina qua e là nelle sue partite. L'ultima, una fortunosa deviazione sulla traversa su un tiro da 30 metri di Kolarov, nella semifinale di andata di Champions League contro la Roma, è un'avvisaglia di quello che succederà nella finale di Kiev un mese dopo, e che segnerà la sua carriera.
Fino alle 21.50 di sabato 26 maggio 2018, la vita di Loris Karius supera quella che la sua immaginazione infantile avrebbe potuto proiettare. È bello e virgulto come un principe-guerriero protagonista di un'epopea nordica, è il portiere titolare di una delle squadre più forti al mondo, e a soli 24 anni sta giocando una finale di Champions League contro il Real Madrid. Poi, al minuto 51', questa realtà così scandalosamente generosa subisce la prima scossa.
Il rapace bianco castiga la fretta con cui Karius voleva far partire l'azione e intercetta un banalissimo passaggio con le mani che il portiere dei reds stava indirizzando a Lovren. Mentre il pallone toccato con l'esterno da Benzema sta terminando la sua mortifera corsa in porta, la disperazione di Karius prende la forma di un'ira cieca verso l'ignoto. L'errore è tutto suo. Non ci sono complici, qualcuno con cui dividere la colpa, eppure si gira verso i compagni imprecando, e trovando solo sguardi di stupore e delusione. Poi, mezz'ora più tardi, un pallone avvelenato calciato da Bale con uno spin diabolico, gli sfugge goffamente dalle mani e finisce di nuovo in porta. Questa volta non c'è spazio per una folle accusa: lo struggimento è solo suo. Intimo e straziante. Karius si getta a terra e si copre il volto con le mani. È impossibile nascondersi davanti a 70 mila persone e centinaia di telecamere, ma lui ci prova lo stesso. Finita la partita, il pianto di chi sa che quella notte lo perseguiterà per sempre esplode senza trovare spalle amiche. A consolarlo c'è Bale, che con spettacolare sadismo gli aveva pure segnato in rovesciata. Karius perpetra il tentativo di svanire nascondendo il volto in lacrime sotto la maglia, poi si avvicina alla parte di tribuna occupata dai tifosi reds e chiede scusa con le mani giunte e gli occhi strizzati dal dolore e dalla vergogna. Qualcuno applaude, ma forse Karius non se ne accorge. Allora torna a sedersi sul campo, dove continua a piangere.
«Non sento niente in questo momento. So solo che vorrei tornare indietro nel tempo», dice a fine partita in stato di shock.
I giorni successivi sono contraddistinti da un variegato e deprimente tiro al bersaglio che oscilla tra ironie e minacce di morte a mezzo social. Karius, che aveva ribadito le proprie scuse su Twitter scatenando le reazioni più abiette, cerca parziale difesa nella diagnosi di una tac effettuata pochi giorni dopo, che evidenziava un trauma cranico dovuto a una gomitata ricevuta da Sergio Ramos durante la partita. Nel referto si legge che «il sig. Karius presenta sintomi residuali i quali dimostrano che dopo il contatto esistevano palesi disfunzioni visive e di orientamento che hanno inciso sulla sua efficienza e sulla sua prestazione, e che necessitavano di un intervento immediato».
La tesi dell'infortunio è troppo debole per scagionarlo, anche parzialmente. «Alcune persone ancora non capiscono o non vogliono credere che sia successo a causa di un trauma cranico e prendono in giro la mia prestazione», confessa in un’intervista. Nonostante gli sparuti messaggi di solidarietà ricevuti dai tifosi del Liverpool, che gli assicuravano che “non avrebbe mai camminato solo”, e la promessa di Klopp di stargli accanto, nessuno sembra davvero disposto ad aiutarlo. La sua è una solitudine amara e inconsapevole. Karius non sa che quello è solo il punto più alto di un piano inclinato che lo porterà a scivolare inesorabilmente verso l'abisso. Non sa quanto il mondo del calcio sappia essere crudele. Non ancora. Ingenuamente, cerca normalità proiettandola su Instagram con foto delle sue vacanze californiane, tra tuffi in piscina e partite di ping pong, ma ogni tentativo di recuperare la sua vita precedente, o quanto meno di metterla in scena, è giudicato inopportuno, come se l'unico modo per espiare la sua colpa dovesse essere il silenzio; anzi, l'oblio.
Intanto il Liverpool sta ingaggiando Alisson. L'idea è di nascondere Karius all'ombra del portiere brasiliano, ma la trattativa che avrebbe dovuto portare Mignolet a Napoli non va a buon fine, e così quello destinato alla cessione diventa lui. Contingenze, quindi, ma far partire Karius non era solo una decisione tecnica. Era la necessità di liberarsi di un ricordo ingombrante, di scacciare un'energia negativa. Era una purificazione, rito tipico di quell'esoterismo a cui il mondo del calcio spesso tende, nel tentativo di domare la sua complessità. Anche un umanista come Klopp, sempre attento alla sfera emotiva dei suoi giocatori, asseconda l’idea di liberarsi di Karius, nonostante i propositi solidali: «Il modo in cui la gente ha reagito verso Loris dopo la finale mi ha quasi convinto a lasciar perdere Alisson e, piuttosto, giocare con lui. Ma dovevamo essere professionisti. Il nostro compito è avere i migliori giocatori in ogni posizione». Un “sacrificio” che ha dato i suoi frutti: la stagione successiva, con Alisson in porta, il Liverpool vincerà la Champions League.
Quanto è difficile accettare l'idea di rinunciare a qualcosa che ti sei guadagnato in anni di lavoro e sacrifici, solo per 30 minuti di appannamento? Come ci lascia alle spalle una serata che tutti ricorderanno per i tuoi errori clamorosi?
Nella sua conferenza stampa di presentazione al Beşiktaş, con cui ha firmato per un prestito biennale, Karius si mostra determinato a correggere la sua narrativa: «Sono cose che appartengono al passato», dice riferendosi alla tragica finale. Ma i fantasmi sembrano perseguitarlo, e le 35 presenze del suo primo anno sono puntellate nemmeno troppo di rado da papere grottesche. Contro il Bursaspor, al suo esordio, legge male un cross dalla sinistra e rimane paralizzato dentro l'area piccola. Contro lo Slovan Bratislava esce dall'area per intervenire di testa ma il rimbalzo del pallone lo scavalca, come succede ai bambini che stanno affinando tempo e coordinazione. Contro il Malmö cerca di deviare sopra la traversa un innocuo tiro-cross e manca in maniera inspiegabile il pallone, come se le sue braccia fossero evanescenti. È chiaro che nella strada di ritorno da quella notte di Kiev abbia perso sicurezze. E la fiducia, per un portiere, è tutto. «C'era qualcosa che non andava dall'inizio, nel suo entusiasmo e nella sua motivazione» dice Şenol Güneş, tecnico del Beşiktaş, a fine 2020, quando Karius rompe con il club turco dopo una causa per mancati pagamenti.
Rientra alla base di Liverpool con la tenue speranza di rimanere come vice-Alisson, approfittando della poca stima che l'ambiente aveva nei confronti di Adrian, il secondo portiere. In fondo poteva essere una situazione comoda: poche responsabilità e possibilità di vincere trofei. Non proprio una prova di carattere, ma visto come stavano ancora le cose a due anni dal misfatto, era una soluzione. «Darò il massimo in allenamento. Come secondo portiere in Inghilterra sai che hai le tue possibilità. Sono nel miglior club del mondo».
Nel frattempo il Liverpool, dopo il trionfo in Champions, aveva vinto la Premier League rompendo una maledizione che durava da 30 anni. Da quando si sono separati, le traiettorie di Karius e dei Reds sono andate in direzioni opposte. Avrebbe potuto essere campione d'Europa e d'Inghilterra, avrebbe potuto ammorbidire quel ricordo nefasto mettendosi al collo due medaglie e cercando il perdono nell'entusiasmo generato dal successo. Invece è un figliol prodigo che rientra e trova la porta di casa chiusa. Senza nemmeno disfare le valigie vola in Germania per un altro prestito all'Union Berlin. Chissà che l'aria di casa, quella vera, non sia utile per ritrovarsi. Ma è il secondo portiere ad arrivare al club tedesco quell'estate. Il primo è Andreas Luthe, un 35enne reduce da due anni di panchina all'Augusta. Karius metterà insieme quattro presenze in una stagione. «È stato sfortunato. L'Union ha comprato due portieri, e tutti si aspettavano che Karius fosse titolare, ma è stato l'ultimo ad arrivare e Luthe ha sfruttato la sua chance» ha scritto il giornalista tedesco Cristoph Biermann. Karius si limita a definire la sua esperienza “estremamente amara”.
Sono passati più di 1.400 giorni dalla notte di Kiev. Oggi Karius è al Liverpool, ma è come se non ci fosse. La sua ultima partita in maglia reds resta l'amichevole col Torino del 2018, poco dopo la fatidica finale. In attesa che il suo contratto finalmente scada - alla fine di questa stagione - è stato messo fuori rosa e si allena come quarto portiere con il preparatore John Achterberg. Nascosto in cantina come gli oggetti di cui non ci possiamo liberare ma che non vogliamo più vedere perché rievocano brutti momenti. Pochi giorni fa si è tornato a parlare di lui per una foto postata sul suo Instagram, in cui mostra un fisico da culturista che sembra una candidatura per il ruolo di prossimo Thor. Mettere su tutti quei muscoli appare come un segnale piuttosto chiaro di come le sue ambizioni professionali siano passate in secondo piano. Non c'è modo di trarre beneficio tecnico da tutta quella massa, che al contrario si pone come ostacolo alla reattività e all'esplosività. A 29 anni la sua carriera dà tutta l'impressione di essere già finita, almeno ad alti livelli.
In questi quattro anni, Karius ha avuto le sue possibilità di riscattarsi, ma non c'è riuscito. Il percorso di riabilitazione è stato un fallimento. Come il Coleman Silk di Philip Roth, è rimasto una macchia umana. La sua storia non ha bisogno dell'enfasi a cui solitamente ci si lascia andare per quelle narrazioni che parlano di “una partita che ha cambiato una carriera”. È evidente che quella notte abbia cosparso di veleno tutto il suo percorso. Forse quel ragazzino che lo Stoccarda pagò “una cifra esorbitante” a soli 16 anni, e di cui si parlava un gran bene, non era il talento che ci si immaginava. E alcuni momenti infelici vissuti prima dell'inferno della finale sostengono quest'ipotesi. Ma un conto è tradire le attese, reali o sballate, un conto è finire ai margini del calcio a soli 29 anni dopo aver difeso la porta di una delle migliori squadre al mondo.
«È stato il mio unico errore durante una finale ma fu dieci volte peggiore di qualsiasi altro che abbia mai commesso» ha dichiarato Oliver Kahn tempo fa riferendosi alla partita col Brasile del Mondiale 2002, quando respinse male un tiro di Rivaldo e consegnò a Ronaldo il pallone dell’1-0. Proprio Kahn parlò con Karius subito dopo la finale del 2018. Con poca delicatezza e molto realismo, gli disse che purtroppo per lui, il peggio doveva ancora venire. Aveva ragione.
Anche per questa settimana questo era tutto. Grazie per essere arrivato fino a qui. Ci sentiamo alla prossima.