Bentornati su Feticci. Dopo un salto nel passato e aver definitivamente tirato i piedi al povero Denzel Dumfries che nelle ultime due settimane ha fatto qualcosa come 130 minuti su 180 in panca, torniamo con un’inchiesta che Report trema. Se pensavate di avere delle convinzioni, bene, da oggi dovrete rinunciarvi. Buona lettura.
Sono ossessionato dai tagli di capelli. Avendone avuto giusto due o tre nella vita, di tanto in tanto come una madre disperata e annoiata, mi metto a scrutare tutte le immagini del profilo delle persone che conosco per capire come, con altri capelli, potrei sfoggiare diverse acconciature.
Un’altra cosa che mi ossessiona sono i falsi miti, le credenze popolari, i racconti frutto dell’effetto Mandela. Se in tanti ripetono un qualcosa, allora quella bugia diventa vera.
Visto che ho definitivamente rinunciato ad andare in terapia, mi sembra giusto prendere gli spazi che mi vengono concessi per lamentarmi e sfogarmi. È così che nasce ciò che leggerete da qui in avanti - intendo fino alla chiusura del pezzo. In pratica, una mattina mi sono svegliato e, anziché diventare la colonna sonora de La Casa di Carta, mi sono chiesto: ma perché la gente è convinta che Roberto Baggio avesse il codino?
Ora, non so quale sia la prima immagine che vi viene in mente quando vi descrivono qualcuno e vi dicono: aveva il codino. Le immagini che sovvengono alla mia mente sono principalmente due: la prima è quella di un essere immaginario, che chiameremo Kevin, ha otto anni, un padre tatuato in faccia, una madre che urla, e sul suo coppino si appoggia docilmente un ricciolo come la parte terminale del maiale, spesso accompagnato da una rasatura quasi perfetta ai lati della nuca. Un codino. La seconda è Demo Morselli, anche se tutte le foto che vedo di lui in giro lo ritraggono coi capelli sciolti, ma il mio primo parrucchiere, per tornare ai traumi iniziali, oltre a non ascoltare un’indicazione che fosse una, gli assomigliava molto e portava questi capelli legati, in una coda. Una coda.
Treccani dice: codino [dim. di coda]. - ■ s. m. 1. [treccia di capelli naturali o posticci, tipica della moda maschile del sec. 18°], aggiungendo poi agg. [che esprime conservatorismo] ≈ conservatore, controriformistico, reazionario, retrivo, retrogrado.
Roberto Baggio è un uomo del XX secolo, i suoi capelli - ma ci arriveremo - non ricordano una coda, neanche piccola. Dunque, a meno che non ci si riferisca alla sua visione politica del mondo, che non conosco e nella quale non vorrei addentrarmi, credo sia arrivato finalmente il momento di abbandonare Divin Codino per sempre.
Come un novello Orsini, sono dunque pronto a dirvi ciò che gli altri non vi dicono. Spero vi siederete al mio fianco, lasciandomi delirare.
Perché Divin Codino? Ora, solo un folle potrebbe negare che in sparuti momenti della sua carriera, come a Brescia, Roberto Baggio abbia effettivamente avuto una coda o un codino che dir si voglia. Non è dunque così strano che qualcuno, per un momento, abbia pensato che eleganza più codino potessero racchiudere al meglio lo spirito del numero 10. Se in Argentina avevano la Mano di Dio, per quale motivo l’Altissimo avrebbe dovuto snobbare l’Italia, la nazione più egocentrica del mondo?
Brescia, però è uno dei momenti finali della carriera del nostro, il soprannome già esisteva e tuonava, sulle bocche di tifosi e detrattori. Se prendiamo il suo momento più iconico, ahimè USA ‘94, possiamo notare come il capello non si chiudesse in un codino, ma in copiose treccine.
Allora perché non “Le Divin Treccine”?
Roberto Baggio è un personaggio “esotico”. Oltre alla sua scelta religiosa/filosofica di abbracciare il Buddhismo, negli anni è sempre stato al centro di diverse polemiche, che non lo vedevano come protagonista, ma come vittima. È sempre stato a un passo dall’essere un bad boy, finendo però per essere un incompreso. Nella sua incomprensione, Baggio rimane uno dei calciatori probabilmente più nazional-popolari dell’era moderna, complice il fatto di aver vestito le tre principali maglie del nostro campionato, di aver avuto un rapporto conflittuale con la Nazionale, ma soprattutto di essersi dimostrato fragile, sia nei gesti (“non è da questi particolari” etc etc), che nel dono ricevuto da madre natura, al contempo così generosa e così matrigna da costringerlo ad appendere gli scarpini al chiodo dopo un calvario lungo molti anni.
È un personaggio strano, di recente lo abbiamo visto nel programma su Netflix di Alessandro Cattelan che, in quel frangente, più che una disperata ricerca della felicità, sembrava quasi uno spin-off di “Sepolti in Casa” o “Le mie ossessioni”, con anatre intagliate nel legno che spuntavano dalle fottute pareti. Il simbolo del Roberto Baggio post calcio è una Panda 4x4, il simbolo per antonomasia di un certo tipo di italianità, la macchina che l’Avvocato Agnelli fece creare per raggiungere la sua baita in montagna, si dice. Eppure è così schivo, così disinteressato al calcio che è al contempo lontano e vicino. C’è dunque bisogno di avvicinarlo a noi.
Cercando Roberto Baggio su Google, le prime immagini che lo ritraggono ce lo mostrano giovane, sorridente, ma soprattutto senza codino.
Questa per esempio è l’immagine che lo ritrae nel riquadro di Wikipedia
Questa la terza foto, con in mano il pallone d’Oro
Il capello che possiamo vedere in queste foto è riccio, probabilmente ingestibile o di difficile gestione. Nella maggior parte dei momenti che noi tutti ricordiamo, la parte terminale della sua acconciatura sembra quasi la coda di una marmotta, più che un codino. Questa sorta di doppio taglio, che anziché terminare dietro la nuca accompagna i capelli fin sopra il collo, altro non è che un mullet. Perché non chiamiamo le cose col loro nome?
”Codino”, come dicevamo prima, racchiude perfettamente l’anima di questo paese. Siamo un paese che combatte il progresso, lo zeitgeist, un paese che non ha bisogno di nomi stranieri, oggetti esotici, un paese affezionato agli obelischi con la scritta DVX. Roberto Baggio è uno dei pochi eletti italiani ad aver vinto il pallone d’oro. Il suo cognome, però, non è “Rossi”, il tipico cognome da average Italian guy, è Baggio, come un quartiere di Milano, tra l’altro. Quei braccialetti, quella voglia di cambiar maglia, bandiera, quella testa calda solo in nuce, mai davvero approfondita fino in fondo.
Roberto Baggio, per parafrasare un altro supereroe, era l’eroe che l’Italia all’epoca meritava, non necessariamente quello di cui avesse bisogno. Per rendere, però, questa dipendenza reale, questo bisogno necessario, c’era bisogno di rimuovere tutto ciò che non era inquadrabile. Pensate all’odio se sul dischetto, nel ‘94, si fosse presentato Il Divin Mullet, con quell’incomprensione di dove mettere l’accento, di come leggere quella “u”, in italiano o come se fosse una “a”? Forse a quest’ora non lo avremmo ancora perdonato.
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