Per la seconda volta su queste pagine abbiamo un ospite esterno. È Dario Forti, negli Stati Uniti da ormai troppo tempo per calcolarlo che ha deciso di ingannare il tempo facendo una serie di reportage (è un servizio giornalistico, una cosa di lì). Qualche settimana fa era a Compton al servizio di un’altra newsletter (potete leggere qui). Per Feticci, invece, è andato allo stadio, per assistere a San Jose Earthquackes contro Nashville. Buona lettura.
Ubriachi di successi e inconsapevoli del futuro di decadenza da lì a poco in agguato, una domenica sì e una domenica no, saldi nei nostri seggiolini di abbonati al terzo rosso, io e mio fratello guardando leggermente a sinistra verso il terzo verde: settore ospiti. Ma t'immagini tifare l'Empoli (l'Udinese il Chievo il Palermo il Brescia)? E poi cavalcando la fantasia: non vorresti conoscere la lotta salvezza, esaltarti per un pareggio con una diretta contendente alla discesa in B; fare lo scalpo di una grande, battere squadre imbottite di soldi e campioni con gol dell'enfant du pays; arrivare davanti ai propri rivali provare vera felicità per un undicesimo posto ma tre punti davanti alla Sampdoria; ammirare per qualche stagione campioni acerbi mostrare sprazzi del loro talento e vederli poi inevitabilmente finire a giocare in qualche squadra milionaria che odiamo. Era una fantasia da classismo calcistico? Sono la sciura impellicciata che sogna un giro nel quartiere malfamato, la protagonista di Common People dei Pulp che vuole vivere come i plebei per scherzo, tanto una telefonata a papà e tutto torna a posto? Chi mai potrebbe voler scambiare Kakà-Shevchenko-Inzaghi per Suazo-Langella-Esposito, se non chi non ha mai davvero conosciuto la povertà calcistica.
Nell'estate dei miei 15 anni esce un libro curato da Nick Hornby chiamato Il mio anno preferito: una raccolta in cui una decina di scrittori britannici racconta un'annata memorabile della propria squadra di calcio del cuore. Quasi tutti scelgono stagioni perdenti, addirittura fallimentari in alcuni casi. Perché provo così tanta invidia allora, mentre leggo di retrocessioni all'ultima giornata strisce infinite di sconfitte spogliatoi saltati in aria ammutinamenti? La risposta mi arriva inaspettata 15 anni dopo, alle prese con la mia tesi di laurea. Vittorio Sereni, campione mondiale dello sdoppiamento eterno giudice di sé sempre in sospetti e pensieri di colpa, analizza ne Il fantasma nerazzuro il suo tifo per l'Inter: "Diventa una metafora della tua esistenza, la sorte della squadra - senza per questo diventare la tua stessa sorte, che sarebbe davvero troppo - è un possibile diagramma del tuo destino: o, con parole meno solenni, di come vanno o possono andarti, nel bene e nel male, le cose. [...] Non credo che esista un altro spettacolo sportivo capace, come questo, di offrire un riscontro alla varietà dell'esistenza, di specchiarla o piuttosto rappresentarla nei suoi andirivieni, nei suoi imprevisti, nei suoi rovesciamenti e contraccolpi; e persino nelle sue stasi e ripetizioni; al limite, nella sua monotonia."
Cosa sto chiedendo alla mia squadra di calcio allora, se non di essere uno specchio della mia vita, una moderna tragedia greca che metta in scena i rovesci della mia fortuna, il profilo vallonato della mia esistenza, per poi trovare, nell'esito infelice o in quello felice, una catarsi? Sto chiedendo che il tifo sia una forza creatrice di senso, la partita una narrazione? Non mi posso riconoscere in una squadra che schiera due palloni d'oro e svariati campioni del mondo. È per questo che qualcuno finisce per tifare squadre lontane centinaia di chilometri dalla propria città, squadre ricche e vincenti: è il modello ispirazionale contro il modello aspirazionale? Per questo il calcio annaspa nel tentativo di catturare l'attenzione dei giovani, figli dell'era (post)post-moderna incapaci di credere alle grandi meta-narrazioni?
Sparky è stato il mio vicino di casa nella prima settimana a Los Angeles, quella del superbowl. A contenderselo al SoFi Stadium di Inglewood, cittadina della grande conurbazione di LA, ci sono i Cincinnati Bengals e i Los Angeles Rams, la squadra della città. Vedrai che roba domani qui, mi dice invitandomi al party per la visione della partita. Quando gli chiedo se è teso però, alza la gamba e scopre il tatuaggio di un pirata con un casco da football vintage e due sciabole incrociate: non tifa i Rams, ma i Raiders, l'altra squadra di football losangelina. Ma domani tifo Rams ovviamente, sono di LA come me, chi altri dovrei tifare mi dice. Provo a raccontargli che una volta il mio amico Niccolò, inscalfibile cuore rossonero, diede un party come il suo: era il 22 maggio e l'occasione per riunirsi era quella di tifare contro l'Inter e l'eventualità di un Triplete storico, ma non sembra capire. Come glielo spiego che per me il 5 maggio vale più di due o tre scudetti del Milan? Come me lo spiego, ora che ci penso?
Finito il Superbowl, ho appuntamento con un'amica a Long Beach. Da Van Nuys devo necessariamente passare per Inglewood: i Rams hanno vinto il Superbowl con una delle ultime azioni, m'aspetto le strade piene di gente impazzita caroselli bandiere, invece ci sono solo persone tranquille che mangiano ai tavoli all'aperto; uno scalmanato a un incrocio prova a scalare il semaforo per attaccarci una bandiera con scritto RAMSHOUSE, la polizia lo riporta prontamente a più miti consigli. Durante le quattro ore di diretta (cinque? sei? il tempo sembra entrare in una zona di non passaggio durante il football), Spanky ha costantemente dato la schiena allo schermo, progressivamente sempre più ubriaco perso in ricordi dei tempi che furono col suo migliore amico Shannon ("su questi stessi tavoli, 4 o 5 ragazze in topless, si ballava tutta la notte"), a parte per l'halftime show, un'esibizione corale di musicisti legati al territorio di LA (Eminem, Dr Dre, Kendrick Lamar e Mary J Blige, a suonare la batteria avvisto Anderson Paak). Ma con che forza riuscirei a godermi uno spettacolo di Sfera e Guè e Marra a fine primo tempo di una finale di Champions League giocata dal Milan a San Siro, col risultato in bilico? Eppure, il pubblico esce di testa, nessuno pare possa aver pensato che l'esito del Superbowl sia una metafora della loro esistenza o un diagramma del proprio destino.
Qualche settimana più tardi, passando per Las Vegas, vedo appesi ovunque banner con lo stesso disegno del tatuaggio di Sparky: i Raiders si sono trasferiti a Las Vegas un paio di anni fa, diventandone la nuova squadra di football. Non è il loro primo spostamento, apprendo poi con una rapida ricerca su Wikipedia: nati a Oakland, andati a LA per una dozzina d'anni tra il 1982 e il 1994, tornati a Oakland ancora, prima di finire in mezzo al deserto del Mojave nel 2020. Un destino che condividono con le altre squadre di LA: i Chargers hanno fatto andata e ritorno da Los Angeles a San Diego, i Rams hanno vagato tra Cleveland, LA e il Missouri, prima di stabilirsi nuovamente nella capitale californiana. È il sistema delle franchigie, così funziona lo sport statunitense. Diventa difficile però investire emotivamente - chiedere più di qualche ora di intrattenimento - in qualcosa che potrebbe cambiare nome colori città da una stagione all'altra (Sereni esile mito / filo di fedeltà non sempre giovinezza / è verità [...] / Strappalo quel foglio bianco / che tieni in mano, si vide ripreso il poeta luinese da Franco Fortini). Potrebbe mai un americano sviluppare quel tipo di ossessione semi-invalidante che ti porta a dire una cosa come "mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato con sé"? Dolore e sconvolgimento sono davvero due parole che vogliamo spendere per una nostra passione?
Sono negli Stati Uniti da ormai tre mesi e credo di aver capito che la fedeltà alle cose non faccia parte della loro mentalità: progrediscono su un'infinita spiaggia come un bue nei campi, ma invece che l'aratro a solcare la terra, hanno attaccato al giogo una scopa, che continuamente cancella i passi che hanno portato fin lì. Non esistono luoghi vecchi e ogni cosa rimane in piedi finché una nuova necessità non vi ci entra in conflitto. Può capitare di imbattersi in qualche rovina, città fantasma nel deserto ai tempi della corsa all'oro, ma sono lasciate lì solo perché esaurita la loro funzione non è più stato necessario aggiornarle allo scopo. Già, qual è lo scopo? Vivere in un tempo senza tempo, inseguimento al futuro reso continuamente un eterno presente. Non c'è nessuna nostalgia per futuri perduti perché è continuamente cancellata la rotta che al presente attuale ha portato. La tua squadra del cuore si chiama San Jose Earthquakes, poi non c'è uno stadio in cui giocare le partite e allora la tua squadra del cuore è trasferita in massa a Houston - tre stati e 3000 chilometri più in là, come se il Milan finisse a giocare a Mosca - e le viene cambiato nome in Houston Dynamo, poi lo stadio si trova ed è quindi rifondata una squadra che si chiama San Jose Earthquakes, ma in questo balletto cosa rimane, cos'è la tua squadra del cuore? Quanto può essere sentito il California Clasico, la sfida - il derby? ma si danno 550 chilometri, che derby è - tra LA Galaxy ed Earthquakes, se un giorno ci sei e il giorno dopo potresti non esserci più?
Sabato prima di Pasqua, gli Earthquakes ricevono al PayPal Park il Nashville SC. Mando una mail al Director of communications e mi accredito. Dico genericamente che sto scrivendo della MLS, anche se a dir la verità non so esattamente cosa stia scrivendo della MLS.
Tra i tanti aspetti apparentemente bizzarri dello sport professionistico statunitense: non esistono retrocessioni e promozioni. La squadra di Nashville è nata sei anni fa, passando qualche anno nel campionato di secondo livello prima di essere ammessa nella MLS come expansion team; orfana del suo storico capitano nonché capocannoniere all-time della MLS, Chris Wondolowski, ritiratosi alla fine dell'anno scorso, San José ha invece raccolto solo due punti nelle prime sei partite; il coach della squadra, l'ex Parma, Lazio e Inter Matias Almeyda, è apparentemente in rotta con la dirigenza da mesi, desideroso di liberarsi per andare ad allenare la nazionale cilena.
Queste le poche informazioni in mio possesso, mentre scorro il programma della partita e mi rendo conto di non conoscere nessuno dei giocatori in rosa, eccezion fatta per Hany Mukhtar, ala sinistra/seconda punta tedesca premiata con una carta Silver Stars TOTW che ho utilizzato per parecchi mesi su Fifa 21. Conta qualche presenza nel Benfica e una ben più lunga parentesi nel Brondy, con cui è arrivato a giocare anche qualche turno agostano di Europa League; nel corso dell'intera partita, darà costantemente l'impressione di essere uno o due livelli superiore al resto dei giocatori in campo, finendo per segnare due gol e mangiandosene almeno altrettanti cercando - come l'amico troppo forte alla partita di calcetto che non vuole cannibalizzare - di far segnare i compagni.
La partita inizia alle 12.30 ma gli accrediti si possono ritirare fin da due ore prima e, desideroso di osservare ogni singolo istante di avvicinamento, alle 10 e 31 sono già al di là dei cancelli, diretto alla press box. La prima, enorme cosa in cui ci si imbatte entrando è il maxi-schermo double-face a livello del terreno che occupa lo spazio che in uno stadio normale sarebbe riservato a una delle due curve, una sorta di accento lungo sulla pianta a U dello stadio. Lo schermo permette di guardare la partita anche alle persone fuori dallo stadio, ma sarà usato soprattutto da una fetta di spettatori di cui non riesco a leggere le intenzioni: in piedi in un vasto rettangolo di erba sintetica circondato da banchetti di cibo come in un enorme street food festival, già al di là dei cancelli quindi possessori di un biglietto quindi destinatari di un posto assegnato sulle tribune, queste persone passeranno tutta la partita lì, dando la schiena allo schermo mentre chiacchierano fra loro o guardano i loro figli giocare.
Al mio ingresso nella press box, vado a presentarmi al Director of communication, Jake, il quale, associata infine una faccia al mio nome, sembra assumere l'espressione tirata di chi ha capito troppo tardi di essere finito in una situazione spiacevole; per provare a scacciare quelle che penso siano solo mie paranoie, gli faccio una domanda sull'affluenza media durante la stagione, ma Jake mi risponde allontanandosi e cercando di fare il più in fretta possibile, come se non volesse essere visto parlare con me. Pochi minuti dopo mi chiede di parlare in privato e scopro il perché: il nostro team ha degli standard, non puoi stare in shorts e t-shirt nella press box, mi dice. Mi viene l'atroce sospetto che il problema non sia tanto l'outfit, ma la sua intensità: mi sono ossigenato i capelli a dicembre per festeggiare come si deve una laurea tardiva a 31 anni, poi sono partito per la California e una quasi accettabile imitazione di Billy Idol sì è trasformata in quattro mesi nel figlio illegittimo di una notte d'amore tra Guy Fieri e l'era noodles di Justin Timberlake; a questo vanno associate scarpe Kalenji con tagli speculari sulla parte esterna che permettono breve visione piede ma soprattutto una maglietta che ho usato come borsa per raccogliere dei limoni dimenticandomi poi di averlo fatto e creando le condizioni per degli strani bozzi di muffa arancioni blu sulla parte posteriore della t-shirt (l'ho lavata più volte, con aceto, la muffa è andata via ma ha lasciato uno strano pattern a pallini neri). O forse Jack ha solo capito che avrei mangiato tutti i cioccolatini presenti in sala stampa.
Nonostante in realtà fosse la soluzione migliore per la vaga idea di reportage che avevo in mente (prima che si trasformasse nella mia lagnetta passivo-aggressiva verso Jake), l'essere mandato negli spalti a guardare la partita mi umilia terribilmente e passo tutto il primo tempo a dettarmi nella mente una mail di fuoco da spedire a Jake una volta finito il match i cui temi portanti vanno da lei-non-sa-chi-sono-io come si permette a giudicarmi dall'outfit a 'se metteste lo stesso impegno che mettete nel controllo dress code allo scouting, forse adesso non vi trovereste con 'sta squadra di brocchi che farebbe fatica in Eccellenza'. Gli intenti bellicosi cadono a fine primo tempo quando, in fila per il bagno, ci ritroviamo proprio io e Jake. Completamente in imbarazzo mi parla per 3 minuti di fila del fatto che quando c'è il vento che tira così si possono sentire gli aeroplani atterrare nell'aeroporto dall'altra parte della strada, se invece tirasse dall'altra parte no. Ah, e di quale parte dell'Italia sei, la mia famiglia è originaria di Malta, mi dice improvvisamente. Altrettanto in imbarazzo, faccio l'unica cosa che so fare quando sono in imbarazzo, gli parlo di biciclette e gli dico che me ne sono accorto di quanto è pazzo il vento in California, ma non me la sento di dirgli che Malta non è in Italia e spero che questa errata convinzione lo porti prima o poi a sbagliare una domanda a Chi vuol essere milionario?.
Denso paragrafo auto-assorbito perché della partita non c'è davvero niente da dire: il livello di gioco è terribile e l'atmosfera inesistente, nonostante Jake, cercando di consigliarmi una sistemazione alternativa alla press box, avesse suggerito la curva, il supposto dominio degli ultras. Fanno piuttosto casino, mi risponde quando gli chiedo se fossero una tifoseria come quelle europee. Sarà stata la pioggia (solo la terza partita in 8 anni con la pioggia per gli Earthquakes) o il ponte di Pasqua, ma la curva rimane desolatamente vuota per tutto il match, a parte 10 raga a petto nudo che cantano e suonano i tamburi trasmettendo la stessa sensazione grottesca che danno i giapponesi di Harajuku che si conciano come divi del rockabilly.
Un triste 2 a 2 mantiene San Jose in fondo alla classifica, ma a nessuno sembra importare qualcosa, forse perché non c'è nessun fantomatico spettro della retrocessione (anzi, l'ultima posizione permetterà a San José di scegliere per prima al draft dell'anno prossimo) o forse perché nonostante il calcio giocato e il risultato siano stati pessimi, la giornata è stata comunque divertente, come mi dicono i due tifosi di origine messicana seduti di fianco a me. "Mi bevo una michelada con mio figlio, dei nachos, un pomeriggio fuori e poi se anche non si vince non è mica la fine del mondo" mi dice il più vecchio dei due.
Mentre torno a casa, mi arriva un messaggio di John. John è un veterano del Vietnam che ho incontrato per caso al supermercato e che, dopo una giornata passata insieme in cui mi ha raccontato tutto della guerra e della sua vita, ha iniziato a messaggiarmi foto esplicite di sua moglie, chiedendomi se mi andasse di avere un rapporto sessuale con lei. ENM è la sigla con cui si auto-definiscono le persone come John e sta per Ethical Non Monogamy, il nome con cui si chiama ora quel che un tempo veniva chiamata coppia aperta (da quel che ho capito dalle sue spiegazioni). Al di là della situazione bizzarra, mi sono trovato a pensare che sarei molto più pronto a condividere una partner, averne più di una, in una situazione di armonia e rispetto, piuttosto che fare lo stesso con la mia squadra di calcio: una fedeltà stupida e ostinata, irrazionale e motivo di un numero di giorni infelici inevitabilmente maggiore di quelli felici, e davvero non capisco perché.
Questo era tutto anche per oggi. Se avete letto questo pezzo ma non siete iscritti potete farlo qui.