“A guardia di una fede” è un manifesto della cultura ultras
Il documentario racconta la storia della curva dell'Atalanta attraverso vent'anni di riprese narrate dalla voce del Bocia. Abbiamo intervistato il regista, Andrea Zambelli.
Uno dei primi pezzi usciti su questa newsletter descriveva in un lungo ritratto lo storico ultras dell'Atalanta, Claudio Galimberti, conosciuto da tutti come il Bocia. Ora la sua storia, che coincide con quella della curva atalantina, è al centro del nuovo documentario di Andrea Zambelli, regista che ha portato la sua idea di cinema indipendente in giro per il mondo prima di tornare a occuparsi di tifo organizzato e di Bergamo, due elementi fondanti della sua biografia. Abbiamo parlato con lui del suo ultimo lavoro, di società moderna e di cultura ultras.
Nella suggestiva scena di apertura, una panoramica dello stadio deserto si chiude con la curva atalantina stracolma. Al megafono c'è il Bocia, al secolo Claudio Galimberti, storico ultras dell'Atalanta che con la sua abituale energia lancia cori e discorsi identitari. Uno di questi termina con una frase che ha il sapore del manifesto: «Perché l'Atalanta siamo solo noi». Ed è proprio quel “noi”, inteso come tifo organizzato ma anche come comunità unita sotto un'unica bandiera, che Andrea Zambelli ha voluto indagare in più di vent'anni di riprese con il suo documentario A guardia di una fede (produzione Rossofuoco e Lab 80). Il seme di questa indagine era stato già piantato con Farebbero tutti silenzio, mediometraggio del 2001 divenuto un cult nel mondo ultras, in cui Zambelli tratteggiava un primo affresco in presa diretta di quello spaccato a lui caro sia dal punto vista personale, visto che ne era parte attiva, sia dal punto di vista sociologico e antropologico, temi ricorrenti nei suoi lavori e che formano il suo sguardo registico tout court. Oggi, per riprendere il filo e raccontare la parabola di quella realtà, che negli anni è cresciuta, si è evoluta e poi è ha passato il testimone, si affida alla voce narrante del Bocia, che dal suo esilio nelle Marche ricostruisce la storia della sua curva, che poi è anche la storia della sua città e soprattutto la sua. Tre linee narrative che si intrecciano organicamente e compongono il corpo del film.
È un Bocia malinconico e incanutito quello che a bordo del peschereccio su cui lavora tesse il filo della narrazione. Ma è ancora intenso, pieno di quella vitalità con cui prima guidava un movimento e con cui oggi cerca di reinventarsi. Non c'è molta differenza con il Bocia incendiario di vent'anni prima, che si alterna sullo schermo nelle immagini di repertorio girate a fine anni '90. In una di queste lo vediamo ribollire di adrenalina mentre presenta al gruppo le sue ambizioni: «Abbiamo un potenziale che fa paura: la tifoseria, compatta, farebbe faville». La sua idea è quella di trasformare la curva in un blocco così unito da poter erodere i confini che separano il tifo organizzato dalla società civile, e costruire così una comunità allargata, tenuta insieme dall'amore per Bergamo e per l'Atalanta. Un progetto apparentemente visionario che invece si materializza, nonostante la linea di condotta ribelle portata avanti dalla curva. Mentre afferma la sua identità attraverso la violenza degli scontri, il movimento organizza iniziative benefiche e mette in piedi un evento annuale che riunisce la curva, la squadra e la città: la festa della Dea. Tre anime che negli ultimi vent'anni sono cresciute in simultanea, come fossero un corpo unico, prima di essere recise dall'avvento del Covid, che ha visto una città in ginocchio e i tifosi costretti lontano dalla squadra proprio mentre toccava l'apice della sua storia sportiva arrivando ai quarti di finale di Champions League.
Le immagini della festa della Dea, di cui il documentario è ricco, sono la summa di quello che Zambelli vuole raccontare. Da una parte il successo di un movimento che dallo stadio è arrivato fino alla città, dall'altra una storia di resistenza: quella nei confronti della direzione ultra-capitalista presa dal sistema-calcio, che vorrebbe trasformare i tifosi in consumatori evanescenti, e quella nei confronti della società moderna, che spinge all'individualismo e all'alienazione. Nella comunione di quella festa popolare si trova la risposta a queste due derive. La dimostrazione che il calcio può essere uno dei pochi modelli di aggregazione virtuosi rimasti in questo tempo.
È cinema sociale quello di Zambelli, che affida solo al Bocia il compito di narrare questa storia di passione e opposizione. Non ci sono altre testimonianze come è buona abitudine trovare in un documentario. Le altre voci che arrivano lo fanno all'unisono sotto forma di cori. È come se il Bocia fosse il depositario di questa storia, non solo il suo protagonista e testimone d'eccezione. In lui confluiscono tutti i tratti che l'hanno caratterizzata, e il suo destino da esiliato rappresenta idealmente lo scotto da pagare per inseguire un'utopia reazionaria. Un “sacrificio” cristallizzato dall'immagine che chiude il documentario: un Cristo in croce realizzato nella cappella dell'ospedale di Bergamo, a cui l'artista Andrea Mastrovito ha dato un volto molto simile a quello del Bocia.
Guardandolo mentre riempie di biada la mangiatoia dei cavalli, punito e isolato dal mondo, viene naturale empatizzare con lui, nonostante il film ci abbia raccontato anche il suo lato più feroce. La tenacia di andare avanti, la sincera umanità che in alcuni momenti trasmette non vengono oscurate dallo spirito selvaggio che l'ha costretto lì, lontano da tutto. E questo appare chiaramente come un altro obiettivo del film: gettare uno sguardo oltre al pregiudizio che ha sempre circondato il mondo ultras. Provare a restituirne un'immagine diversa, più complessa e approfondita, mostrando quel sostrato che lo stigma collettivo non vuole o non riesce a raggiungere.
Hai iniziato a fare più di vent'anni fa quello che si fa oggi, documentare il quotidiano, nel tuo caso indagando una precisa comunità e sottocultura. Cosa ti aveva smosso?
Ero animato da tre tensioni. Prima di tutte la mia militanza in curva: conoscevo bene l'ambiente e intravedevo un grande potenziale. Autogestione, aggregazione, una zona temporaneamente autonoma. Mentre vivevo e osservavo questa realtà, assistevo al grande sputtanamento del mondo ultras da parte dei media, che ne facevano un ritratto distorto figlio non solo della strumentalizzazione, ma anche dell'ignoranza. Contestualmente all'epoca stavo studiando cinema in DAMS, ed era il periodo della rivoluzione digitale sulle camere. Con un milione e mezzo di lire te ne compravi una, erano più leggere e avevano una buona qualità. Le batterie al litio garantivano una continuità che prima non c'era. Improvvisamente girare era diventato comodo, e allora ho deciso di iniziare il racconto di questo spaccato così denso, sfruttando anche un trucchetto tecnico imparato da amici filmmaker: fissare l'otturatore a un venticinquesimo invece che a un cinquantesimo, in modo da dare alle immagini una pasta più simile a un documentario che a un reportage giornalistico.
Dopo una serie di lavori impegnati realizzati in giro per il mondo, con questo docufilm sei tornato, diciamo così, a casa. Sentivi di dover chiudere un cerchio, o volevi semplicemente valorizzare l'incredibile mole di materiale che avevi raccolto?
Entrambi. Quando hai tutto quel materiale in un cassetto devi buttarlo fuori, altrimenti stai male. Se quel materiale non prende vita attraverso un film manca la catarsi, almeno dal punto di vista della mia esperienza personale. Vivo il cinema come un rituale artistico da restituire alla collettività. Non c'è dubbio che tornare a raccontare Bergamo abbia rappresentato la chiusura di un cerchio, anche se in tutte le mie storie vedo una linea di continuità. Dallo sciamano birmano al cocaleros colombiano fino al Bocia: ho raccontato sempre resistenze, persone granitiche con ideali forti e il desiderio di offrire qualcosa al mondo. Questo film però mi ha rivelato qualcosa sulla mia identità artistica. Riguardando le mie immagini a partire dal 1999 fino ad arrivare al 2020, mi sono reso conto che nonostante il tempo, la crescita e lo sviluppo, ci sia uno stile continuo, a partire dalla composizione dell'immagine, che come diceva un mio caro insegnante di fotografia, è una cosa innata.
Avevi già in mente la struttura narrativa del film o hai aspettato di riguardare tutto il girato prima di scegliere che direzione prendere?
Avevo già pensato che la vita attuale di Claudio (il Bocia, nda) nelle Marche potesse essere la cornice del film. Poi ho sviluppato la linea storica in senso cronologico. Mi serviva una progressione del racconto e non volevo che il film diventasse confuso ma accessibile a tutti. Non è un film di regia, anche se in alcuni punti ce l'ho messa, come la panoramica dello stadio in apertura che si chiude con la curva che tifa in uno stadio vuoto. Un mio amico regista pensava fosse un vfx, che l'avessi ripresa durante una partita e montata con un effetto speciale nello stadio deserto. E invece no. Il giorno dopo avrebbero demolito la curva e allora per celebrarla avevano organizzato questa cosa folle, performativa, ai limiti del situazionismo. Novanta minuti a cantare per una partita immaginaria. Una scena potentissima. Alla fine, nella commozione generale, c'era gente che staccava pezzi della curva per portarseli a casa.
Come hai convinto il Bocia a raccontarsi in questo modo così intimo?
È stato difficile perché lui ne aveva abbastanza della sovraesposizione mediatica. Anche perché nei toni e con le accuse nei suoi confronti, in molti avevano passato il segno e a lui dispiaceva, soprattutto per la sua famiglia. Gli ho fatto capire che era una cosa strutturata, che volevo raccontare una storia da consegnare alle nuove generazioni che si affacciano alla curva. In questa società c'è sempre la tendenza a rimuovere il passato, perché per vendere un prodotto su scala globale devi minare e oscurare le identità. Il passato invece è importante, va raccontato, e grazie a un film si può sviluppare un immaginario utile a far capire ai più giovani che non arrivano dal niente, che Gasperini non c'è sempre stato e l'Atalanta non è sempre andata così bene.
Difficile immaginare un narratore migliore del Bocia per tratteggiare quest'immaginario e passare un'eredità.
Ci siamo conosciuti a 19 anni e abbiamo vissuto insieme una stagione molto intensa come quella degli anni Novanta. Mi sono accorto subito di come la sua energia bucasse lo schermo. La sua faccia, la sua prossemica, il suo eloquio dritto e potente. Ha un'espressività cinematografica.
Tra le sue mille sfumature, colpisce la sua umanità. A un certo punto del film si commuove ricordando la morte di Yara Gambirasio, avvenuta nel sua terra mentre lui era costretto lontano da Bergamo.
Ero indeciso se inserire quel passaggio ma mi sembrava importante perché per lui è stata davvero dura essere in esilio mentre successe quel caso. È molto legato al territorio, e ha sempre avuto l'idea che la curva dovesse avere una ricaduta sociale. Le interviste con lui le ho fatte senza fonico, eravamo solo io, Luca e il Bocia. Dovevo stabilire un patto di fiducia per stimolare la sua emotività, che poi è venuta fuori in quel momento di commozione e in altri passaggi del film.
A un certo punto il Bocia dice: “Anche mia nonna mi arresterebbe”. È più colpa sua o della repressione che ha subìto se è arrivato ad accumulare trent'anni di DASPO?
Te lo dico molto onestamente, il Daspo per come è concepito mi sembra uno strumento discrezionale che troppo spesso viene usato a sproposito. Ero lì quando la celere ci ha fermato dopo Fiorentina-Atalanta e ho visto una cosa che non vedevo da Genova. Persone che erano su quel pullman e hanno solo preso le botte si sono viste recapitare una diffida, senza che ci fossero stati incidenti. Era un periodo di tensione per la lotta contro la tessera del tifoso. Claudio ha pagato le lotte, questa e molte altre. Quando ti metti contro al sistema-calcio è normale che te la facciano pagare. Poi sta a ognuno decidere se portare avanti quella lotta o fare quello che ti dicono loro. Storicamente Bergamo è una tifoseria che ha sempre tenuto una linea ribelle, e ha resistito a lungo. Chiedere sei anni per Claudio per associazione a delinquere non sta né in cielo né in terra. Lo pensavano tutti a Bergamo. Per carità ha fatto incidenti, ma quell'accanimento è stato completamente fuori luogo.
Tu come ti poni rispetto alla direzione generale che ha preso il calcio moderno?
Riprodurre un modello di intrattenimento in stile football americano non funziona, in Europa abbiamo un'altra cultura del calcio, e va rispettata. Non è un caso che i tifosi inglesi siano scesi in piazza per boicottare la Superlega. E non erano gli hooligans, che non ci sono più da anni, erano tifosi comuni. Di recente il Muro Giallo di Dortmund ha parlato chiaro con quello striscione contro Agnelli, Infantino e Al-Khelaifi ("Non vi interessa lo sport: vi interessano solo i soldi”, nda). La retorica delle istituzioni condanna la violenza degli ultras e poi affida un Mondiale prima al Qatar e poi all'Arabia Saudita, dove vengono calpestati i diritti fondamentali. Un'ipocrisia senza fine. Sono andato a vedere Manchester City-Atalanta e c'era un'atmosfera orwelliana. Una cover band che intona gli Oasis prima della partita e poi silenzio per novanta minuti. Tutto ciò che aveva brillantemente analizzato Desmond Morris ne La tribù del calcio, tutto il significato antropologico e sociologico di una partita di calcio viene tagliato fuori in nome dello showbusiness.
Covid, capitalismo selvaggio e modernizzazione degli stadi sembravano davvero poter assestare un colpo decisivo agli ultras. E invece vediamo curve pienissime e caldissime, grandi coreografie, scontri frequenti in tutta Europa. Oggi il movimento sembra essere in piena salute.
In Germania soprattutto, dove il movimento è strutturato e popolato di persone con idee, talvolta sostenute persino dal club. La politica ha risentito molto di più del riflusso degli ultimi vent'anni. Perché è un'ideologia e non ha avuto modo di rinnovarsi, ancorata a teorie filosofiche che non si sono ancora evolute, e quindi anche la teoria politica è rimasta un po' indietro. Il calcio invece è più terra terra, è legato a codici primordiali e per questo è più facile restare compatti, aggregarsi. È qualcosa che ha a che fare con una pulsione atavica. Un po' come avviene per i rave illegali. Nonostante ci sia una legge dura c'è ancora gente che li organizza e partecipa, perché non essendoci un'ideologia molto forte alla base ma solo un momento rituale di divertimento collettivo il movimento sopravvive, perché quel bisogno è sempre in piedi. E il richiamo ancestrale di ballare davanti a un totem non è molto dissimile a quello che ti porta a vivere la partita con passione e trasporto.
Oggi molte tifoserie organizzate hanno account social, si mostrano e costruiscono la loro narrazione identitaria e iconografica attraverso un media. Un trend in contrasto con i fondamenti della cultura ultras, che sono sempre andati in una direzione di anarchismo e dissimulazione. Cosa pensi di questo cambio di paradigma?
Non frequento molto i social, ma quello che posso dire è che se questa narrazione è solo legata all'immagine e alla rappresentazione di sé, se dietro non c'è un'identità forte, una vera coesione, rimane un po' appesa lì. In generale sto con McLuhan: il medium è il messaggio, se tu posti qualcosa su un media è quel media che assume significato, non più il tuo contenuto, che invece viene assorbito. Questo per dire che io non credo tanto a questa nuova tendenza. Le radici che danno prospettiva e continuità sono altre. A Bergamo siamo abbastanza duri sul telefono in curva. Se vedo uno che continua a fare video e mi riprende gli dico hai rotto il cazzo. Guarda la partita, goditela. È questo il tema. Ho creduto molto nella rete e di sicuro molto di buono è stato fatto in termini di diffusione e accessibilità alle informazioni, ma ho l'impressione che i social media abbiano preso una deriva di masturbazione egotica che ha cancellato l'azione, il vivere qui e ora.
La curva dell'Atalanta si è sempre distinta per la sua aderenza ai codici ultras. È una linea seguita anche dalle nuove generazioni che si sono affacciate in Curva Nord?
È un periodo di transizione, ma i capisaldi della curva resistono. “Basta lame, basta infami” è uno slogan ancora attuale. Dal 1993 a oggi non ho mai visto una lama in curva nord. Anche la regola che non si toccano i tifosi delle altre squadre se non sono ultras è ben salda. Nell'ultimo Atalanta-Napoli, tre tifosi del Napoli che evidentemente era la prima volta che venivano a Bergamo sono finiti per sbaglio davanti al baretto della curva. In tutta calma son stati accompagnati per un pezzo di strada in direzione del loro settore. Chi non è dentro quei codici è giusto che rimanga fuori.
In una delle sequenze finali del film si vede una gru che demolisce un settore dello stadio. È un'immagine bella e molto suggestiva. Cosa dobbiamo leggerci dal punto di vista simbolico, la fine di una storia ultras – quella del Bocia e degli Atalanta Supporters” - o il decadimento più generale di una cultura che il calcio moderno sta tentando di spazzare via?
Un po' entrambe, ma anche il messaggio che per costruire qualcosa di nuovo è necessario un cambiamento. La storia dei Supporters è enorme e ventennale, ma come diceva il loro stesso comunicato “La storia non finisce, finisce il nostro ciclo”. I cicli sono fatti di persone, e le persone invecchiano. È giusto che per un avvicendamento ci sia un momento di transizione, in cui la curva non è granitica com'era prima. Però vedo che alcuni valori sono abbracciati anche dalle nuove generazioni. Il fatto che bisogna cantare fino al novantesimo, che non si fischiano i giocatori a meno che non ci sia scarso impegno, i codici di cui ti parlavo prima. Vediamo cosa succede, dipende anche dalla qualità delle persone che vengono su. Di Claudio non ne nascono tutti i giorni.
Sarebbe stato possibile girare lo stesso film ma su un'altra curva italiana?
Non saprei dirlo. Davide Ferrario dice che questo film è stato fatto perché abbiamo una curva meravigliosa e perché io sono un filmmaker che la frequenta. E in più c'è il Bocia, con le qualità di cui abbiamo parlato. Un incastro unico.
Credi che il film possa essere interessante anche per chi non sa niente di calcio e del mondo ultras?
Persone del mondo cinema, svincolate dai circuiti ultras e dalle dinamiche territoriali hanno detto: “Ma io mi aspettavo fossero centinaia di criminali”. Poi hanno visto le immagini della festa della Dea e hanno capito che questa è una roba diversa. Migliaia di persone di ogni rango ed estrazione, giochi per bambini a una festa ultras. Quella è stata un'idea geniale di cui il motore principale è stato Claudio. Quando uno dice: come faccio a passare dallo stadio alla città? Ecco, una festa popolare in cui ci sono famiglie, preti, una comunità intera raggruppata sotto un palco da cui parte comunque il coro “lunga vita agli ultras”.