Terza puntata di Feticci, la seconda in cui a scrivere è uno solo di noi. Questa volta tocca a Federico Corona, che ha dato a me, Tommaso, l’infausto compito di scrivere quest’intro. Non mi dilungo oltre, ci aggiorniamo alla fine di questo ritratto per tutti i link attraverso i quali possiamo rimanere in contatto.
L'esilio
Il Caligo Guercio è un piccolo peschereccio ormeggiato al porto di Senigallia, ma è anche un ristorante specializzato in cozze, servite arrosto o alla marinara. Quattordici delle quindici recensioni su Tripadvisor gli danno il massimo dei voti, e con toni che vanno dal soddisfatto all'entusiasta lo definiscono suggestivo, genuino, spettacolare, piratesco. L'ultimo aggettivo è evidentemente dettato dal logo, che presenta il classico barbanera con la bandana in testa. Ma non solo. Deve avere a che fare anche con l'uomo a bordo dell'imbarcazione, a cui il logo sembra ispirato. Anche lui porta una fascia che gli tiene schiacciati sulla fronte i capelli scarmigliati, ha braccia forzute, mani pietrose, una barba ispida e canuta che evoca saggezza e abbandono.
Guardandolo girare per i tavoli, i generosi recensori devono aver pensato al vecchio lupo di mare che a un certo punto della sua vita ha deciso di accompagnare alla solitudine della pesca l'apertura di una piccola attività. Almeno fino a quando il marcato accento bergamasco non fosse arrivato alle loro orecchie come un sibilo stridente. A quel punto, le grosse B e G impresse sulle cosce avrebbero avuto un senso. Claudio Galimberti per mare non c'è mai stato. Al contrario, ha sempre tenuto i piedi ben saldi per terra, spesso sentendola tremare quando dalla balconata della Curva Nord dello stadio di Bergamo infiammava la passione di migliaia di persone con un megafono in mano. Quello al Caligo Guercio, e più in generale a Marotta, nelle Marche, è un esilio forzato. Un tentativo orgoglioso e disperato di ricostruirsi una vita dopo che la sua gli è stata cancellata da questori e prefetture, di cui per oltre vent'anni è stato il volto cerchiato in rosso sul sughero appeso alla parete. Se oggi è qui a coltivare cozze è perché ha il divieto di tornare a Bergamo. Gli hanno tolto la patente, la casa e soprattutto l'Atalanta, centro di gravità attorno a cui è ruotata la sua intera esistenza.
Il Bocia
Verso la fine degli anni Ottanta, la curva dell'Atalanta si è già ritagliata uno spazio importante all'interno del movimento ultras italiano, che in quel momento sta vivendo la sua età dell'oro. In tutti gli stadi le curve sono stracolme e caldissime, ognuna con i propri tratti riconoscibili, i propri vessilli, il bruciante desiderio di affermare la propria identità dentro e fuori dallo stadio, dove gli scontri sono all'ordine del giorno. La reputazione degli atalantini è già ben definita: sono tosti, appassionati e con una forte connotazione politica. La bandiera rossa con il volto di Che Guevara si staglia nel blocco di granito costituito da gruppi come le Brigate Nerazzurre e i Wild Caos, che negli ultimi anni hanno portato un netto cambio di passo rispetto al passato segnato da collettivi disorganizzati che finivano presto per sciogliersi. In questo scenario, all'interno della curva, inizia a circolare il nome di un ragazzetto incendiario. Ha capelli ricci che spiovono su occhi infantili, ma dà la sensazione di poter correre a tutta velocità contro un muro e rimanere illeso. Si chiama Claudio Galimberti, ma tutti, proprio per il suo aspetto puerile, lo chiamano “Bocia” (ragazzo).
C'è chi nasce con la vocazione per la musica, chi con quella per la scrittura, chi con un naturale talento sportivo: Galimberti è venuto a questo mondo per fare l'ultras. Lo si capisce subito. In una città legata visceralmente alla propria squadra, in cui non si dice vado allo stadio ma “vado all'Atalanta”, il Bocia si presenta dal primo momento con il piglio del martire pronto a dedicare la propria vita per difendere e sostenere il nome della Dea. La sua è una missione con una matrice fortemente sentimentale, ma anche una naturale tensione verso la ribellione che tuttavia non trova fondamento nell'anarchia. A Bergamo, chi vive la curva non cerca solo una zona franca dove poter sfogare le frustrazioni di una settimana passata in fabbrica. Non vive il riscatto in modo irrazionale e individualista. Al contrario cerca condivisione e aggregazione, fratellanza e lealtà, parole che in altri contesti suonerebbero vuote e che qui sono valori imprescindibili, legati a doppio filo con la fede atalantina e l'amore per la città. Chi finisce su questi gradoni è spesso mosso da un senso di rifiuto della società, dei suoi modelli e dei suoi dogmi; è spinto dal desiderio di ricostruire un microcosmo parallelo che restituisca tutto ciò che là fuori non riesce a trovare.
Il Bocia appare dal primo istante l'epitome di questo manifesto identitario, ma all'inizio deve fare i conti con la sua personalissima forma di esuberanza giovanile. Un giorno viene preso a schiaffi dai suoi capi. Voleva prendere a calci la portiera di una Ritmo bianca che portava ultras del Bari allo stadio di Bergamo per una partita di Coppa Italia, ma “quelli erano in cinque, si erano fatti tutta quella strada e andavano rispettati”. Ha imparato in fretta il particolare significato che la parola “rispetto” ha da queste parti. Ma sa anche ciò che della curva non gli va giù. O meglio, cosa significa più di tutto e sopra tutto essere ultras. Avere come unica stella polare il tifo, in questo caso quello per l'Atalanta: «Per come la vedo io, chi non conosce il nome del secondo portiere della squadra non ha nemmeno il diritto di entrare in curva».
Un credo che trova realizzazione nel 1998, quando il Bocia decide di fondare un gruppo libero da ogni steccato ideologico, gli Atalanta Supporters. Nipote di un partigiano e molto vicino agli ideali dell'estrema sinistra, per Galimberti la politica deve rimanere fuori dalla curva. Così come non sono tollerati interessi e secondi fini che negli anni a venire caratterizzeranno la deriva di molte delle curve italiane, specie delle grandi città. Finché sarà sotto il suo regno, la Curva Nord non accetterà finanziamenti, aiuti, o sponsorizzazioni. Non lucrerà sulla vendita del materiale ma reinvestirà tutti i soldi per pagare coreografie e altro. Soprattutto, non diventerà mai un ricettacolo di criminali che vogliono portare sulle balconate i loro sporchi affari.
Proprio quest'aderenza radicale alla forma più pura del tifo organizzato, permetterà al Bocia di essere identificato presto come leader di una curva che “non ha capi, ma riferimenti”. Sarà il biglietto da visita con cui si presenterà al cospetto di tutte le curve d'Italia, da nord a sud, come un profeta arrivato da una terra remota. Ma se diventerà presto un personaggio leggendario, sia per la sua curva che nel panorama ultras nazionale, è anche per il suo carisma magnetico.
Nelle occasioni in cui gli ultras si confrontano con la squadra che sta andando male, c'è sempre qualcosa di violento e intimidatorio. Vedi i giocatori disposti in fila, con le braccia conserte, costretti ad ascoltare le accuse di persone dall'aria aggressiva che nella maggior parte dei casi non hanno mai giocato a calcio a livelli decenti. Spesso queste accuse diventano minacce, a cui i giocatori non possono rispondere. Anche il video qui sotto restituisce l'idea di un momento ostile, ma il il trasporto con cui il Bocia conduce il discorso, il modo in cui lo chiude, lascia spazio anche a una sensazione di unità e democrazia.
Quando prende la parola al “covo di Campagnola”, il ritrovo della curva atalantina, o durante incontri “istituzionali”, cala il silenzio come all'ingresso di un attore sul palco di un teatro. I suoi movimenti sono cadenzati e vigorosi, il tono di voce asseconda alla perfezione ogni passaggio del discorso, il suo aspetto selvaggio, a metà tra Serpico e un guerriero della notte, gli conferisce durezza autentica e credibilità. Un predicatore pazzo che si rivolge a una platea di adepti non per diffondere il suo verbo, ma quello comune. Parla di valori da condividere, di attitudine da non smarrire, di concetti alieni come nobiltà e amore. Discetta sul senso di appartenenza in un ecosistema dominato dai petroldollari di sceicchi e magnati. Tutto ciò che dice ha il sapore nostalgico di un mondo che non c'è più, sempre che sia mia esistito. È la proiezione di un rozzo sognatore che rifiuta la modernità e ti fa credere nell'illusione che esista un'alternativa. È difficile non rimanere sedotti, o quantomeno colpiti, dal suo fascino cinematografico e insieme primitivo.
Nel mirino
«L'apice dello scontro è la cosa più bella che si possa avere perché è dettata dal cuore, perché nasce dalla passione», ha detto una volta il Bocia. Se questa versione romantica non vi convince, ecco quella ribelle: «A me non piace la violenza, a me piacciono gli scontri, che sono una forma di protesta contro una società di merda». Se anche questa vi lascia qualche dubbio, beh, è normale. Per chiunque sia distante dal mondo ultras, è difficile avere pensieri inclusivi verso persone che descrivono la passione per le botte come quella per lo snorkeling o per i cavalli. Ma in fondo non c'è molto da capire, lo scontro è parte della grammatica degli ultras. Per il Bocia è addirittura “una droga”. Per molti anni la curva dell'Atalanta è stata una minaccia per tifoserie avversarie e questure. Quando si muovevano loro, il rischio di disordini si alzava notevolmente. Anche nel tratto più estremo di quella che viene definita “mentalità ultras”, gli atalantini hanno sempre rivendicato e promosso con fermezza la loro lealtà, che tradotto nel linguaggio degli scontri significa utilizzare solo il corpo e le cinture, senza ricorrere ad armi od oggetti contundenti. Proprio il Bocia è stato il principale promotore di questo particolare codice d'onore, al punto di farne un punto centrale della sua retorica, anche pubblica. «Fate i bravi, mai infierire contro chi è a terra», dice sempre ai suoi ragazzi.
(da 13:10 a 13:40, da 14:46 a 15:02) - (tratto da “Farebbero tutti silenzio” di Andrea Zambelli)
Questa passione per gli scontri non è certo passata inosservata ai responsabili dell'ordine pubblico, che hanno iniziato presto ad aprire un fascicolo su Claudio Galimberti. La repressione che a inizio millennio comincia a colpire il mondo ultras con il chiaro intento di metterlo gambe all'aria, aveva tra gli obiettivi più sensibili il Bocia, diventato in poco tempo il nemico pubblico numero uno e la cavia ideale per testare lo strumento del Daspo. Gli incidenti che hanno preceduto Atalanta-Catania del 23 settembre 2009 gli sono costati il massimo della pena prevista: cinque anni lontano dagli stadi. È il primo affondo della magistratura per cancellare dalla mappa del tifo organizzato questo corsaro con la bandana nerazzurra. Un colpo duro per lui, per la curva, e per tutta l'Atalanta, a giudicare dal messaggio ricevuto dal Bocia da Antonio Conte, allora allenatore della Dea: «Mi dispiace per il Daspo».
È stupido pensare che questa condanna, per quanto dura, possa portare un personaggio così tetragono a una qualunque forma di redenzione. Figurarsi all'abbandono di quella per lui è una missione di vita. Più logico aspettarsi una reazione avversa, alimentata da quella congenita intolleranza verso qualunque forma di rappresentanza dello stato. Nel 2010 Galimberti partecipa all'assalto a colpi di molotov e bombe carta alla Berghem Fest leghista di Alzano Lombardo, dove era presente l'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni, “responsabile” di aver introdotto la tessera del tifoso. Un fatto grave, che gli costerà caro, ma che nella logica del Bocia non è altro che una feroce opposizione alle misure prese per eliminare gli ultras. Più avanti troverà anche modi grotteschi per manifestare il suo spirito anti-sistema. Come entrare allo stadio, nel 2015, con una testa di maiale in mano, per poi lanciarla verso un nugolo di poliziotti invitandoli a portarsela in questura. Ormai il Bocia è incastrato nelle maglie della giustizia, da cui cerca di liberarsi più volte violando le restrizioni e finendo per peggiorare la sua situazione.
Così, molte delle domeniche degli ultimi dieci anni, il Bocia le ha passate alla Rocca, il punto più alto di Bergamo e il ritrovo di tutti i diffidati atalantini. Dalla cima di questa fortezza, costruita nel XIV secolo dai Visconti per controllare il territorio, si riesce a vedere metà del campo, le coreografie, si sente l'eco dei cori. Anche se ideale e malinconico, è l'ultimo legame che il Bocia avrà con lo stadio e con la sua città, prima che gli venga imposto il divieto di abitare in provincia di Bergamo.
Yin e Yang
Il 13 marzo 2019, a Bergamo, è stata organizzata una manifestazione per chiedere la libertà del Bocia. Tra striscioni, cori e fumogeni, a cantare “Claudio Libero” c'era anche l'ex sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi. Mostrarsi solidale con il Bocia era il modo per ringraziarlo dell'aiuto offerto da lui e dalla sua curva per essere stato vicino alla sua gente e aver dato una mano a ricostruire lo stadio. Non è stato un caso isolato. Sono tantissime le iniziative portate avanti negli anni dal Bocia e i suoi ragazzi. Sotto le macerie di molte delle tragedie nazionali degli ultimi vent'anni, c'è stata una mano tesa della Curva Nord. Dalla vicinanza alle famiglie delle vittime di stato (Stefano Cucchi, Gabriele Sandri) alle donazioni per le regioni colpite da terremoto o alluvioni. Ma anche campagne per aiutare i senzatetto e sostegno alle strutture per tossicodipendenti. In quei mesi infernali della primavera 2020, nella città-simbolo della pandemia, ragazzi con le felpe della Curva Nord si dividevano tra aiuti per la realizzazione dell'ospedale Covid in fiera e il cibo portato a domicilio agli anziani soli in casa. L'occasione per raccogliere i soldi è sempre stata la Festa della Dea, l'evento annuale che celebra il legame speciale tra squadra, tifoseria e città, in cui si presentano i nuovi giocatori, si ricordano vecchie glorie, e di cui il Bocia è organizzatore ufficiale.
Lo stesso uomo che accarezza il nirvana sentendo il naso di un tifoso avversario rompersi sotto le sue nocche, ha permesso ai giocatori dell'Aquila Rugby di tornare in campo rilevando una quota della società messa in ginocchio dal terremoto. Mentre accumulava Daspo come punti del supermercato, bambini ricoverati all'ospedale di chirurgia ortopedica Santa Maria di Rilina, in Rwanda, potevano farsi ricostruire i legamenti del ginocchio grazie ai 70.000 euro che con la sua curva aveva raccolto nell'arco di otto anni.
Chi è, e cosa ha rappresentato Claudio Galimberti? Un personaggio controverso? Un fuorilegge gentiluomo che invece di rubare ai ricchi per dare ai poveri si è limitato a dare per espiare le sue pene? Un uomo capace di fare del male e del bene allo stesso modo? Tutte queste cose insieme?
La coerenza è spesso una virtù sovrastimata. A meno che non sia la somma di contraddizioni. In tutto quello di buono e di cattivo fatto nella sua vita, per il Bocia non c'è mai stato calcolo o premeditazione. Tutto è sempre sgorgato spontaneamente, come una lacrima o una bestemmia. Il suo idealismo esasperato non ha mai avuto niente di forzato. È sempre stato un Tao squinternato capace di far danzare insieme due forze che solo all'apparenza sembrano in contrasto. Ha abbracciato uno stile di vita estremo, da una parte e dall’altra. Certo, se chiedessimo al questore di Bergamo non otterremo risposte così psicanalitiche. Ma l’affetto e la stima trasversale di gran parte delle persone incrociate sulla strada, che si tratti di ultras, ex compagni di squadra (il Bocia è stato un buon calciatore dilettante) o gente comune, riflettono il ritratto di un uomo che con le sue distorsioni ha lasciato un segno positivo nel cuore di molti. Tutti hanno sempre parlato bene di lui, incensandone lo spessore umano.
Lungo vent'anni appassionati e tumultuosi, ha inseguito un'utopia rivoluzionaria in un mondo che correva a folle velocità dalla parte opposta rispetto alla sua visione. E oggi, come tutti gli utopisti, è rimasto solo.
Addio alle armi
Nelle ultime settimane tutte le testate più importanti hanno tentato, invano, di contattarlo. Ci abbiamo provato anche noi, che non siamo una testata importante ma ci tenevamo a intervistarlo. Il motivo di queste attenzioni è la notizia dello scioglimento degli Atalanta Supporters dopo 23 anni di attività. L'unico media a cui il Bocia si è concesso è “Dodicesimo in campo”, trasmissione che tratta da vicino i temi legati al tifo organizzato. Ripreso a bordo del peschereccio in cui lavora, racconta le ragioni che hanno portato alla chiusura del gruppo che lui stesso aveva fondato. Fa il consueto elenco di valori imprescindibili, dice che non c'era più unità d'intenti, che se fai l'ultras non puoi permetterti di vivacchiare ma devi essere compatto nelle decisioni. Si riferisce soprattutto alle recenti contrapposizioni della Nord sulla scelta di entrare allo stadio in un periodo di ingressi contingentati, con il fronte più oltranzista che promuoveva la linea “o tutti o nessuno” e il resto della curva che spingeva per assistere alle partite. Più in generale, giustifica questo epilogo con l'assenza forzata a cui è costretto da tre anni, da quando, obbligato a lasciare Bergamo, si è trasferito nelle Marche.
Come sempre quando si trova davanti alle telecamere non risparmia parole, gesticola molto, ma la verve non è più quella di un tempo. I capelli che da una vita gli finiscono davanti agli occhi coprono a malapena uno sguardo triste. Ha l'aspetto decadente di una rockstar in pensione, divisa tra l'amarezza per una storia d'amore finita e l'orgoglio di chi non si è spezzato. Nel 2022 avrebbe finito di scontare le sue infinite restrizioni, ma nel marzo del 2021 è stato arrestato in flagrante a Terni, dove, in occasione della partita Ternana-Bari, era giunto per il “saluto” alla squadra di Lucarelli insieme agli storici amici rossoverdi. Ha preso altri otto anni.
Da giorni i social sono intasati di messaggi d'affetto per il Bocia. Non ne ha letto uno. Ha un telefonino con cui può solo chiamare e ricevere chiamate. Ormai si è adattato alla sua nuova vita per mare, ma rabbia e malinconia non gli danno tregua: «Io a Bergamo ho dedicato tutto, l’Atalanta è stata la mia vita, come faccio a cancellare ciò che è nel mio dna? Io i miei errori li ho pagati, ma penso che tutto debba anche finire». Ha promesso che tornerà a Bergamo solo se potrà tornare a seguire l'Atalanta. Come Shane Falco ne “Le riserve”, vive isolato su un barca, coltivando il sogno di un'ultima partita.
Superato ogni limite di lunghezza possibile, rendiamo i convenevoli quanto più rapidi possibili. Questo era il nostro terzo pezzo, il primo sull’Fc Clivense lo trovi qui, il secondo su Handanovic invece qui.
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