Questa è la storia della giornata che ho trascorso nella mia città natale, Genova, per assistere alla prima esperienza di Shevchenko come allenatore in Italia. In origine doveva essere un resoconto blandamente pedissequo della presentazione alla stampa, ma ho commesso il grave errore di infilare la mia famiglia nel primo paragrafo dell’articolo. Non appena si sono trovati sulla pagina non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno, e hanno persino invitato i vari amici e ricordi di derby a dividere i paragrafi con loro.
Ora che ho finito di scimmiottare Gerard Durell possiamo iniziare. Io sono Tommaso, questo è il secondo Feticci Live. Il primo era a Verona, per l’FC Clivense, il secondo è questo, ve l’ho già detto. Leggetelo e capite di cosa parla.
Sheva per me
Mentre sono su un regionale che mi ricorda il motivo per cui cerco di evitare il più possibile di scendere a Genova, in un blocco spazio-tempo in cui - se fossimo nel Metaverso - sarei già morto, e che dura da Tortona, ripenso al motivo per cui sto tornando a casa. Da una manciata di giorni il Genoa ha annunciato il proprio allenatore. Incredibilmente non è andato a pescare tra quel mix di nomi vecchi e nuovi, la metà dei quali entro maggio 2022 avrà collezionato almeno una panchina in questa stagione di Serie A (esempi esplicativi: Gennaro Gattuso, Beppe Iachini, Marco Giampaolo, Davide Nicola), ma con un colpo di scena che ha dell’incredibile, va ammesso, ha tirato fuori dal calderone un nome che gli streamer di Twitch definirebbero se non altro “esotico”: Andriy Shevchenko. Un nome totalmente a sorpresa, che mi ha fatto pensare che non potesse essere altro che un segno del destino. Pertanto, questo treno infernale, quasi come se volesse prepararti all’inospitalità latente ma inevitabile della città che mi ha cresciuto, mi sta portando allo stadio Luigi Ferraris, dove il Genoa CFC presenterà alla stampa quello che, salvo cambi di programma, sarà il suo allenatore fino al 2024.
Il ritorno di Sheva in Italia, e quindi la sua presentazione, è un evento eccezionale, non una presentazione come tante altre. Almeno per me. Vengo da una famiglia fatta per il 50% da milanisti e il 25% da genoani, il restante 25% sono io, interista. Cresciuto in un contesto fatto di “se diventi sampdoriano non puoi stare qui”, ho deciso che avrei rotto il cazzo tifando Inter. La figurina di Ronaldo che mi ha accompagnato per 5 anni nel portafoglio è solo uno dei tanti classici e naturali segnali che l’Universo ti manda per dirti: “Stai andando alla grande”. Rimane il fatto, però, che quando tuo padre e tuo fratello tifano Milan e vivi in una casa che non ha una connessione internet - anche se messa così sembra di raccontare la storia di Ze Pequeno di City of God - volente o nolente la maggior parte delle partite che guardi sono quelle del Milan. Ricordo ancora la prima volta che si è vista una partita di Serie A, in TV, a casa nostra: era il periodo del Pay per View di Mediaset Premium, la scelta ricadde su Milan-Chievo, in una partita in cui Kakà era composto da otto giganteschi pixel.
Sceso dal treno che mi riporta a casa, mi accolgono i miei genitori. Non scendo da tempo - nell’intro probabilmente vi sarete dati una risposta sul perché - quindi anche queste due ore che mi separano dall’appuntamento di fronte allo stadio Luigi Ferraris sono un’occasione per rivivere l’esperienza familiare, fatta di contraddizioni e affetto. Mio padre mi accoglie dicendo “ti devo regalare una cosa” e quel qualcosa è un fumetto sulla discussione dei 21 punti di Lenin che portò nel ‘21 alla frazione comunista, quasi una Madeleine di quella volta in cui lui, di destra e milanista, mi portò alla Festa dell’Unità a comprare la mia prima maglia da calcio: Ronaldo, 9. Ricordo ancora le liti con mio fratello causate dai nervosismi post-derby e le poche e rare occasioni di imparzialità di mio padre, che finiva per dar ragione in quel momento a chi con lui aveva in comune il tifo. Eppure, di quel periodo, ricordo un’altra cosa: quanto mi piacesse Andriy Shevchenko.
Ricordo con affetto la prima volta che sbustai il suo “bomberino Panini”, di quanto nelle sfide a calcio con questi pupazzetti su un campo del Subbuteo mai usato propriamente, Materazzi in difesa e la coppia d’attacco Sheva-Bernardo Corradi (che aveva la base un po’ storta e quindi colpiva la pallina con un effetto imprevedibile) mi portava a rinunciare all’altro grande feticcio di quel periodo bomberinista: Chevanton. O di quando l’anno scorso io mi sia autosabotato giocando a FUT, scegliendo di usare questa carta completamente fuori meta, che aveva però le fattezze di Shevchenko.
Non so il motivo per cui io sia così legato a Sheva, non so se sia davvero una proiezione familiare, un modo per non deludere troppo chi ha il mio stesso sangue, o se sia il suo sguardo angelico unito alla prestanza fisica di un robot. “Macchina da gol”, forse non esiste giocatore che io abbia visto in TV e dal vivo che rispecchi al meglio questo elemento. Un cinismo sovietico, accompagnato da un look di chi sembra aver ereditato la maglia dal fratello più grande. Qui Emanuele Atturo descrive la sua compilation di gol come l’unica a “non avergli dato la nausea”, ad averlo rapito. Non c’è un perché razionale, forse una componente sadica, eppure Sheva è forse l’unico che mi fa lo stesso effetto, secondo solo a Ronaldo che scarta il portiere.
Mi faceva impazzire come sembrasse scaricare tutta la forza che aveva in corpo su quel pallone, lasciando andare quella gamba al contempo con un’eleganza e un’irruenza che a volte pensavo non fosse umana. Nel momento del tiro ogni muscolo del suo corpo si libera di tutta la tensione come quei video rallenty in cui le fruste creano l’onda perfetta prima di sferzare il colpo.
Ancora oggi, se qualcuno mi chiede su due piedi la mia classifica dei giocatori preferiti, il primo posto lo assegno senza esitazione a Ronaldo, il secondo a Kakà - anche per una presunta somiglianza tra me e l’ex San Paolo riconosciuta la prima volta durante la mia pre-adolescenza durata fino alla fine del liceo, con grande incomprensione di chi mi sceglieva nelle squadre di calcio e scopriva poi la mia totale inabilità con un pallone tra i piedi - e il terzo posto di solito è ricoperto da Sheva. Mi sembra strano che per un tifoso interista due dei giocatori preferiti abbiano giocato al Milan, tra l’altro entrambi vivendo lì probabilmente l’unico momento di vero splendore, eppure è così. Ricordo ancora l’esaltazione della sua cessione al Chelsea, nel 2005, l’anno della mia prima volta a Londra, un trasferimento che portò a un nulla di fatto, se non l’effetto collaterale di vedere un altro mio grande feticcio, Hernan Crespo, vestire la maglia del Milan, prima di tornare per la seconda (e più felice) volta nella sponda giusta di Milano.
Quando quest’estate è uscito il suo libro, l’ho comprato e letto in un pomeriggio, vivendomelo come se fosse quasi un ripasso di una cosa che sapevo già praticamente a memoria.
Vederlo con il pile e lo scaldacollo del Genoa mentre al fianco di un canuto e barbuto Tassotti dirigeva il primo allenamento dei rossoblu, mi ha fatto strano, ma mi ha anche fatto pensare: è destino.
Intermezzo infamante nei miei confronti.
La casualità è il “destino” hanno fatto sì che Sheva fosse oggetto di discussione di questa chat proprio nei momenti che precedevano le prime voci di un suo possibile arrivo al Genoa. Pertanto, mentre Shevchenko parlava con il fondo americano 777 Partners, Federico - l’altra metà di Feticci - e io discutevamo sul fatto che fosse possibile o meno avere l’attaccante che ha segnato più goal nella stracittadina, quindi più goal alla tua squadra, nella classifica dei calciatori preferiti, prima di gente che della tua maglia ha fatto la propria fortuna, penso per esempio a Milito (o Lukaku).
Venerdì scorso, due giorni prima del derby, Tommaso mi ha inviato il link di un suo post su Instagram del 28 febbraio 2015. Era la foto del desktop del suo computer, in cui appariva uno Shevchenko in festa dopo un gol - seppiato dal filtro che in quel periodo era cool - e che faceva da sfondo a un bomberino dello stesso ucraino, posizionato in primo piano.“Sheva sei un bomberino e TVB”, recitava la caption del nostro Tommi 21enne. Per chi non lo sapesse, i bomberini sono miniature in ceramica dei calciatori, simpatici simulacri con cui, nell’era pre-digitale, si celebrava il culto dei propri eroi; quelli che da queste parti chiamiamo Feticci.Tommaso è interista.
Anche se il suo rapporto con il tifo non è morboso o ossessivo, sembra sinceramente deluso quando l’Inter perde e sinceramente felice quando l’Inter vince. Come naturale per gli affari del cuore, perde lucidità quando le cose non girano, ha reazioni scomposte, se la prende con giocatori, allenatore e altri bersagli occasionali che gli rovinano la domenica. Insomma esprime tutti quei tratti che sono alla base di ogni tifoso, anche di quelli che non trattano il calcio in maniera becera e dozzinale.
Proprio per via di questo attestato di fede, la vista di quella foto mi ha lasciato interdetto. Come può un interista avere come sfondo del computer la foto di un’icona del Milan? Peggio: come può un interista scegliere Shevchenko, il giocatore che più di ogni altro ha fatto del male all’Inter negli ultimi vent’anni, il castigatore per eccellenza, come immagine che lo accoglie ogni volta che apre il pc? Non è un promemoria per ricordarsi quanto il calcio possa essere crudele. Né una parte di un percorso di auto-analisi che aiuti a superare i traumi del passato attraverso il confronto costante con i responsabili. È proprio una devozione genuina per Andriy Shevchenko. È puro affetto.
Quando gli ho fatto notare la stranezza di quella scelta, Tommaso ha tirato in ballo la sportività. Orgoglioso del suo spirito inclusivo, ha sputato veleno contro l’approccio radicale al tifo, ha parlato di Medioevo e di fanatismo, di minacce a chi in curva non canta. Atteggiamenti evidentemente tossici e triviali, ma che hanno a che vedere fino a un certo punto con l’incapacità di idolatrare una divinità della tua squadra rivale.
Non solo è legittimo, ma è assolutamente virtuoso riconoscere il valore di un avversario, ammirarne il talento, farsene sedurre e condividere verbalmente questa tensione. Più volte, quest’anno, ho ripetuto che la squadra che più mi diverte guardare in serie A è la rivale di quella per cui faccio il tifo. Guardarla è un tale piacere che a volte mi rendo conto di sperare inconsciamente che quella splendida azione o quell’eccezionale pressing si concludano con un gol. È la passione per il gioco che vince sugli steccati del tifo, che supera bandiere e colori per esaltare qualcosa di più grande. Ma riconoscere ed incensare è un conto, un altro è farne oggetto di devozione, santino da venerare e tenere nel portafoglio. È un confine sottile ma essenziale. Così come celebrare il “nemico” arricchisce il dibattito sul calcio, tutelare la propria fede ne eleva il senso più profondo, quello irrazionale.
Quindi, cos’è Tommaso? Un post-tifoso? Un appassionato di calcio con una simpatia per l’Inter? Un vero tifoso? Per capirlo, mi piacerebbe sapere se qualche tifoso della Lazio tenga come sfondo del telefono la foto di Francesco Totti con il pollice in bocca. Se a qualche milanista sia mai passato per la testa di prendere un’immagine di Diego Milito con la Champions in mano, incorniciarla, e metterla sulla scrivania dell’ufficio di fianco alla foto di una vacanza con i figli.
Ma forse troverò delle risposte prima, in questo pezzo.
Il giudizio delle cose “familiari”, non riesco a considerare in altro modo Sheva, è qualcosa che mi spaventa e che al contempo è impossibile da spiegare ad altri. In linea di massima riconosco che amare Shevchenko non sia una cosa da “interista”, ma d’altro canto tutta l’evoluzione dei discorsi sui rapporti amorosi ci porta a capire che non esiste un modo giusto per affrontare l’amore. È amore il poliamore? È amore la solitudine? Sì, decisamente sì. Amo, anche se mi fa ridere parlare in toni così solenni di una squadra di calcio, l’Inter, nel senso che appunto come ogni amore è in grado con un solo gesto di risollevarmi la giornata o di affossarmela totalmente. La amo di un amore morboso, che mi porta a controllare tutto ciò che fa (“Inter, nel mirino Zakaria” e aggiorno forsennatamente la pagina sperando arrivi l’ufficialità), la amo perché alla fine il controllo che ho su di lei è nullo (mi mancata, Maurito e Big Rom). In tutto questo, però, ho amato e amo Shevchenko.
Oltre a spoilerare già adesso che né Federico né nessuno di voi troverà risposte, ci tengo a debunkare come un David Puente qualsiasi un paio di cose e poi lasciare anche a voi la magnificenza del post condiviso, praticamente uno dei primi mai fatti dal sottoscritto su Instagram:
• La foto che vedrete di Sheva, come ho provato inutilmente a spiegare in questi giorni a Federico, non è e non è mai stato lo sfondo del mio desktop, ma una foto, aperta in modalità tutto schermo, perché mi sembrava stilosa la ripetizione iconografica di uno Sheva gigante e uno piccolo. Fortunatamente il mio gusto estetico è cambiato, negli anni.
• Credo che il filtro seppia non fosse già più cool da un paio d’anni, allora. Come sempre, per i trend, arrivo decisamente in ritardo.
Visto che scorrendo il mio feed ho ritrovato anche quest’altro post che si lega perfettamente al racconto, continuo con il solipsismo e vi lascio qui l’altra metà della medaglia di quest’esperienza.
La conferenza
L’ultima conferenza stampa a cui io abbia partecipato nella mia vita - almeno tinta di rossoblu - è quella della seconda esperienza sotto la Lanterna di Marco Borriello, che torna quattro anni dopo quella che forse è stata la sua migliore stagione in Serie A, in prestito dalla Roma. È il 2012, io ho 18 anni e ancora credo di poter diventare un giornalista sportivo, probabilmente perché vivo sotto il tetto dei miei già citati genitori. Nove anni, e diverse delusioni lavorative dopo, sono di nuovo lì, come il piccolo me che pensava fosse un traguardo passare il 31 gennaio all’ATA Hotel parlando con procuratori di disperati. La prima cosa che noto è che non è cambiato molto, le facce sono le stesse, almeno le loro. Gli stessi volti, le stesse TV, la stessa stampa. Tanto che un mio ex collega, e amico, appena mi vede mi dice: “Tommi, che fai? Che combini? Ti ho un po’ perso… Ti sei fatto grande”, segno che questi 10 anni sono effettivamente passati solo per me.
I miei dieci anni di assenza, però, nascondono un periodo non proprio florido per il Genoa CFC. “41 testate, non mi ricordo da quanto non ci fosse così tanta gente, da quanto non ci fossero anche i foresti” è la prima frase che intercetto fuori dai cancelli dello stadio, una frase che racchiude in sé le due anime di Genova e del Genoa che più mi affascinano: la memoria storica, ogni minimo aspetto di successo è qualcosa di lontanissimo (durante la conferenza qualcuno dirà, quasi supplicante: “Andriy abbiamo vinto l’ultima Coppa Italia nel 1939, ci farai vincere qualcosa?) e la diffidenza per chi viene da fuori. I foresti, appunto.
Nonostante per me non sia cambiato molto, c’è qualcosa di strano nell’aria. Innanzitutto non ho mai visto - in realtà forse Milito, ma c’era al contempo Thiago Motta - una persona catalizzare così tanto l’attenzione di un posto che per Genova e i genovesi come il Luigi Ferraris o semplicemente Marassi, in questa metonimia affascinante che vale solo per gli stadi. Ci fanno entrare a due braccia dal campo da calcio, che è circondato da maxi schermi che danno il benvenuto ad Andriy Shevchenko, messaggio che si ripete anche nei cartelloni luminosi adibiti agli sponsor.
Genova sembra, per l’occasione, aver assunto la rigidità dell’est, nell’atteggiamento ma soprattutto nel clima, con un vento che rallenta e rende difficoltosi i collegamenti TV, ma che soprattutto mi regala la visione per la prima volta di macchinari per scaldare il manto erboso del campo. Sembrano delle navicelle, con tanto di luci - che immagino siano le lampade adibite al riscaldamento - segno che quest’oggi in Liguria è atterrato un alieno.
L’aria che si sente all’interno della sala delle conferenze è elettrica: i colleghi si stupiscono della presenza di altri colleghi (“Oggi ci sono anche i sampdoriani, eh”), non si avventano sul buffet e fanno calcoli delle possibilità di vittoria contro Roma e Juve (“Oh, alla fine sono in crisi, la ruota gira”). C’è una positività che non è proprio comune a casa mia. Alcune persone sorridono e lo fanno con così tanta purezza, che si percepisce anche da sotto la mascherina. Non sono sorrisi di cortesia, sono sorrisi di gioia.
Il Clash tra le realtà di provincia e un Pallone d’Oro è evidente da ogni minimo dettaglio, innanzitutto il fatto che questa cosa del Pallone d’Oro venga ripetuta in continuazione e sminuita dal solo Sheva, che ridendo ricorda di non essere più un giocatore.
Sul palco, a parlare, ci sono tre persone, tutte e tre di nazionalità diverse: c’è Andres Blazquez, operating manager del fondo 777, spagnolo, chiamato da tutti “mister Blazquez”, c’è Shevchenko e c’è Josh Wander, americano, in rappresentanza anche lui del fondo, nuovo proprietario rossoblù, che ha una componente così esotica che tutti lo chiamano, semplicemente “Josh”.
Per tale ragione la conferenza è in doppia lingua, c’è una traduttrice che dal fondo della sala riporta in italiano ciò che viene detto in inglese e viceversa. L’inglese dei giornalisti è pazzesco, con una presenza formidabile della cocina, che rende subito chiaro dove si è.
Ogni domanda si parla di “progetto”, a lungo termine, ma soprattutto Sheva parla di “lavoro”, di fatica, di abnegazione, mentre lo spirito di Lobanovski aleggia sulle nostre teste. Per Sheva esiste solo il carico, che sia fisico o mentale (risponderà che c’è un perfetto equilibrio) e nonostante le parole sul progetto e il continuo rimando ai possibili investimenti di gennaio e dei prossimi anni, il momento in cui il neo-allenatore sembra essere davvero felice della scelta che ha fatto è quando ammette che per un periodo vivrà nel centro sportivo: “Viviamo un momento di difficoltà, c’è molto lavoro da fare, sarò sempre in campo”.
Il contrasto maggiore, però, è tra il romanticismo di chi ascolta e la totale propensione al business di chi parla. Mentre i giornalisti chiedono a Sheva dove vivrà, cosa pensa della città e se sa che è particolare “ma che una volta che ti entra nel cuore ama in modo speciale”, Josh parla per slogan, per claim, anche quando parla naturalmente. Così, quando gli chiedono perché abbia scelto Shevchenko, la sua risposta è: “We didn’t choose him for his name, but for his brain”. Già una frase da mettere sulla maglietta.
Eppure la conferenza stampa sembra una messa. Nonostante il timido applauso che qualcuno prova a far partire dopo la prima domanda, nessuno parla mentre i colleghi fanno le domande, tutti ascoltano quest’uomo che porta ancora sulle spalle il fascino del grande campione, che parla con un tono di voce sommesso, pacato, una parlata quasi angelica, che parla di “dodicesimo uomo in campo” (e conoscendolo avrà studiato la storia del club e il fatto che il Genoa abbia ritirato il numero 12 proprio per la Gradinata Nord) e che ringrazia tutti, letteralmente uno per uno, i giornalisti quando è il momento di alzarsi e tornare a Pegli, ad allenare. “Grazie mille, grazie davvero, grazie del supporto”. Quando non sa, che il vero supporto, è il sogno che sta regalando alla città.
Conclusioni
Così, mentre torno a casa, risalendo sul treno che in un’ora e mezza sulla carta, in tre in pratica, mi riporterà alla mia fredda (non questa volta) Milano, ripenso a ciò che mi sto lasciando alle spalle. Non so quando rivedrò i miei genitori, l’idea di scendere per Genoa-Roma e vedere Shevchenko vs Mourinho mi affascinava, ma Milano mi tiene qui, non solo per motivi calcistici. Eppure sono tranquillo. Mentre mi accompagnavano in stazione, finisco a parlare con mio padre dell’affaire DAZN degli ultimi giorni e con la decisione di chi ne ha viste tante, l’uomo che mi ha messo al mondo tuonava che non l’avrebbe fatta passare liscia, a quelli, che non l’avrebbero mai più rivisto. Salvo poi aggiungere: “Forse però, mi guardo ancora la prima di Sheva…”. Non il suo Milan, Sheva. Più grande del tifo.
Eccoci qua, finalmente messo a nudo e alla berlina persino dai miei stessi soci. Ora che sono un reietto vi chiedo un piccolo supporto.
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